Gerusalemme

“Vi spiego il mio amore per Israele”. Parla un giovane della Comunità ebraica

Giovani

di Giacomo Sonnewald
Una delle cose più difficili da spiegare a chi non fa parte dell’ambiente ebraico o per chi ha astio verso lo stato di Israele è dire a parole cosa significa amare Israele. Quali altri cittadini amano con così tanto ardore un paese che non è il loro? Il sionismo è probabilmente il patriottismo più subdolo che ci sia, ed eppure un ebreo italiano che ama lo stato di Israele lo ama tanto quanto un francese che ama la sua Francia.

Io penso che amare Israele è un po’ quell’amore irrazionale, è quel tipo di amore che nessuno è in grado di descrivere a parole. Per un tifoso sfegatato può essere simile all’amore per la sua squadra, per un musicista per la sua chitarra, per un motociclista professionista l’amore verso la sua moto.  

Ecco, io in realtà quell’amore per Israele non l’avevo mai provato, non fino alla mia prima esperienza di permanenza di cinque mesi in un Kibbutz al Nord. Io ora non so dire l’esatto perché, ma Israele mi manca.

Forse è quella certezza che ovunque ti trovi quando arriverai in Israele farà comunque più caldo di dove sei venuto. Forse invece è proprio quell’aspettativa di caldo delusa dalla sorpresa di avere giornate di pioggia intense quando non te le saresti mai aspettate. Forse è il sapere che dovrai passare un’ora in più in aeroporto per i controlli extra, rispetto a qualsiasi altro viaggio normale: questo fatto ti dà fastidio, ma alla fine ti ci affezioni anche. Forse è il sapere che rivedrai per la centesima volte lo Shuk (il mercato) a Gerusalemme e comunque non vedi l’ora di respirare l’odore delle spezie e sentire i mercanti che urlano in ebraico ed in arabo.

Forse è sapere che quando passeggerai per le spiagge di Tel Aviv vorrai rivedere la sedia su cui scritto: I love Tel Aviv and Tel Aviv loves me. Forse è il sapere che tu, che rispetti la Kasherut, potrai mangiare la carne praticamente ovunque senza remore. Forse è la vista del Kotel che ti fa battere il cuore un po’ più forte ogni volta che lo vedi. Forse sono i rabbini che ti fermano a chiederti se hai già messo i Tefillin la mattina e sei fregato comunque, sia che tu gli abbia messi o sia che no. Forse è per quell’amico che da quando ha deciso di fare il militare vedi oramai solo in Israele o per quell’altro che sta studiando all’università e incontri oramai solo due volte l’anno. Forse è la consapevolezza di sapere che passando per KiKar (piazza) Rabin c’è davvero qualcuno che ha lottato per la pace. Forse è finalmente quel momento in cui puoi parlare un po’ in ebraico visto che lo sai così bene o forse è proprio l’ebraico che non hai mai imparato veramente bene e ogni volta che vai ti stupisci di quanto te lo stai dimenticando.

Giacomo Sonnewald al lavoro nel kibbutz

 

Forse è il ritornare a galleggiare nel Mar Morto e poi lamentarsi per le ferite che bruciano e ti domandi perché continui ad entrare in quel mare che assomiglia più ad un brodo che a un mare. Forse è il sapere che ogni estate ci tornerai perché hai la casa là o forse invece è il solo sapere che ci torni per occasioni importanti come i matrimoni. Forse è la voce dei tuoi nonni che quando mostri loro le foto tornato dal tuo viaggio ti dicono che quando c’erano stati loro la prima volta in quei luoghi non c’era altro che deserto, o forse sei tu, nonno, che ogni volta che torni in Israele ti sembra di rivedere i tuoi nipoti che abitano lontano quando tornano da un viaggio: evoluzione continua. Forse è il suono dello Shofar che dal nulla parte e ti risveglia per un attimo dai tuoi pensieri.

Forse è l’andare a trovare quegli zii che si sono trasferiti in Kibbutz in quell’era dove l’idealismo viaggiava forte e ogni volta che li rivedi li senti sempre un po’ più delusi per come le cose stanno andando nel loro paese. Forse invece sono quegli zii che si erano trasferiti in Kibbutz quando ancora erano vere comunità socialiste e ora si trovano a vivere più che altro in dei villaggi. Forse è quell’estate che sei partito spensierato e poi invece hai dovuto passare una settimana a sentire sirene, correre con l’ansia nei bunker, scaricarti applicazioni che segnalano emergenze per i missili e a leggere nuovi stati su Facebook. Forse perché quell’inverno che sei andato a Gerusalemme ha nevicato là, ma non a Milano. Forse perché sai che non potrai mangiare un Hummus così buono come quello che trovi in Israele finché non ci tornerai. 

Forse perché a Tel Aviv c’è una mistura etnica bellissima e un’apertura mentale a tutte le sessualità che non è solo impensabile in qualsiasi altro paese del medio oriente, ma anche in molti paesi occidentali. Forse perché a volte ti sembra di essere in Russia o in Etiopia. Forse è quella famiglia di migliori amici che frequentavi sempre quando vivevate vicini e ora che ha fatto l’Aliya sai che ti ospiterà quando andrai a trovarli, o forse è quella famiglia che si è trasferita nello stesso periodo in cui l’hai fatto tu e avete portato avanti la comunità italiana in Israele. Quella stessa famiglia che frequenta con te il tempio italiano, parla ancora il giudaico-romanesco, mangia il cibo libanese, tripolino o marocchino che mangi tu, anche se se vivete nelle alture di Gerusalemme. Forse perché parli spesso del suo governo criticandolo spesso e volentieri, ma lo difenderesti con le unghie e con i denti se è necessario. Forse perché quando atterrerai all’aeroporto il tuo cuore saprà di essere a casa.

Forse perché Israele è il paese delle contraddizioni. È un miracolo nato dopo un genocidio. È il paese dove nessuno ti dirà che non potrai professare la tua religione, che tua sia ebreo, musulmano, druso o cristiano e se qualcuno lo farà sarà una sua devianza personale.

Eretz Canaan, Palestina, Zion cos’è questo posto che è sempre sulla bocca di tutti?

È il posto che da quando è nato non conosce pace, che ha fatto cose meravigliose e anche tanti errori. È il paese dove la tecnologia non smette mai di progredire. È il paese che sforna cure mediche, libri, ricerche, nuovi strumenti tecnologici, opere artistiche e musica che fanno il giro del mondo e quando ti ricordi che è un paese più piccolo della Lombardia ne rimani esterrefatto. È il paese che forse vorresti diviso in due stati. È il paese dei nostri padri e delle nostre madri. È il paese dei nostri figli. È il paese del nostro passato e del nostro futuro. È il paese che amiamo, ma nessuno sa dire il perché.