di Sofia Tranchina
Guidato dal giovane rav Moshe Haddad, grazie agli opulenti e gustosi kiddushim di Ovadia Hamra, rinasce l’Oratorio sefardita di via Guastalla. Scappati dal Medioriente negli anni Cinquanta e Sessanta, gli ebrei si ritrovano qui dal 1958 per pregare secondo un rito antichissimo. E oggi arrivano anche studenti e famiglie israeliane
Nel cuore di Milano, due sinagoghe storiche sorgono “a matrioška” in via della Guastalla: al piano superiore quella del Tempio Centrale, ampia e maestosa, di rito italiano, seguita dal Rabbino capo Alfonso Arbib e, al piano di sotto, più nascosto e segreto, il piccolo “gioiello” sefardita, l’oratorio orientale seguito dal giovane rabbino Moshe Haddad. Aperto nel 1958, quest’ultimo ha sin da allora offerto le sue mura come luogo di raccolta per tutti quegli ebrei ancora legati alla terra o alle tradizioni del proprio oriente perduto, gente che si era dovuta lasciare alle spalle quelle rive facendo proprio l’esilio e il nomadismo che da sempre caratterizzano il popolo ebraico.
«Quando siamo arrivati dall’Egitto e dal Nordafrica, andavamo tutti a pregare al tempio di rito italiano», racconta Sami Sued, uno dei primi frequentatori. «Ma non era il nostro minhag, allora abbiamo chiesto di poter fare Shabbat al piano di sotto, con il nostro rito. Nel 1958 finalmente si è deciso che diventasse un vero tempio in cui poter pregare tutti i giorni. Si è organizzato un minian e l’oratorio sefardita ha preso vita». Il rabbino, Rav Yeshuà Haddad, era diventato una figura di famiglia, pronto a rispondere a qualsiasi ora e a offrire supporto alla sua Kehillah.
Luogo di preghiera e di amicizia, di ricordo e di festa, l’Oratorio Sefardita ha sempre organizzato per il kahal, l’insieme dei frequentatori della sinagoga, opulenti kiddushim conosciuti in tutta Milano, ricchi di vino, pane, e pietanze appetitose: un “kiddush che sazia”, come dice Ovadia Abu-Hamra, shammash del tempio. «Le persone venivano al mio kiddush sapendo che avrebbero trovato lì tutti gli amici, e mangiavano con gioia, tanto che poi a casa non avevano più bisogno di saziarsi». Giunto dalla Siria trent’anni fa, nel ’92, Hamra racconta che la sinagoga raccoglieva regolarmente almeno cinquanta o sessanta fedeli, «alle feste anche centoventi». Oggi, con i suoi figli, cantori eccellenti, anima la melodia del canto dello Shabbat. Fino a poco tempo fa, Hamra offriva per ogni Rosh Kodesh un pranzo per quaranta persone sponsorizzato da Johnny Mesrie, oltre che una deliziosa colazione con brioches, biscotti e caffè ogni mattina, coordinata dal gabbai Solly Cohen. Di queste, rimangono solo le colazioni della domenica, che si aggiungono ai kiddushim di shabbat e durante i chagghim. Le specialità servite incrociano la tradizione Sefardita con quella Ashkenazita, spaziando da lahm biajin, ai kibbe e alla mussaka, al cholent e aringhe in forshmak.
«Sono il più giovane del gruppo», racconta il rabbino Moshe Haddad. «Da bambino frequentavo il Bet Haknesset con mio padre. Per me è sempre stato bellissimo, il tempio era grande, era pieno, con anziani e giovani. sentivo i discorsi interessanti di mio zio Rav Yeshuà Haddad, venivano grandi hazanim e c’erano tanti bei momenti, Baruch HaShem. Ora che ne sono il rabbino, i miei genitori e la mia famiglia mi offrono ogni giorno un supporto prezioso».
Ma il tempo passa e le cose vanno avanti. Un po’ per il Covid, un po’ forse per la crescente secolarizzazione delle nuove generazioni, le stanze del Bet Haknesset sono via via andate svuotandosi e ora si fa fatica anche solo ad avere un minian di Shabbat. «Quando sono arrivato nel ’92 – racconta Hamra – le persone durante i moadim erano molto più unite che adesso. Alcuni si sono ammalati, altri sono partiti per Israele e sostengono il tempio da lontano, e di quelli che sono rimasti molti si sono allontanati durante il Covid e non sono più tornati». Il Kiddush, tuttavia, si organizza ancora e Hamra invita tutti a partecipare alle funzioni e a fermarsi dopo, ricordando che sarebbe una grande mitzvah tenere attiva la vita del tempio, perché ogni tempio, si dice, è come una pietra del Bet Hamikdash, e chas v’shalom, sarebbe un gran peccato chiuderlo per mancanza di kahal. «Questa sinagoga è sempre stata generosa con tutti, e veniva chiamata il ‘tempio dei miracoli’. È la madre di tutti gli altri templi sefarditi di Milano, e non si può dimenticare la propria madre. Adesso abbiamo bisogno dell’aiuto dei frequentatori». Certo, ci sono altre sinagoghe, ma ciascuna ha il suo minhag ed è buona cosa che questo sopravviva. Ci sono grandi figure fedeli a questo luogo, quali il signor Joe Djimal, «che va tutti i giorni per primo e fa anche da chazan (cantore)», e poi Arlette Hazan e Shelly Misrahi Diwan, «che viene spesso con tanto kavod»; e ci sono anche nuove figure che iniziano ad approdarvi, ebrei che arrivano da tutto il mondo, persone che abitano in centro e turisti di passaggio.
«Come ci ha insegnato il Rebbe, è meglio una buona azione che mille sospiri», spiega rav Moshe Haddad: non bisogna rinnegare né dimenticare il passato, ma non si può vivere nostalgicamente con la testa rivolta all’indietro. D’altronde, come i chachamim insegnano, nella Torah anche dove le generazioni precedenti erano più spirituali (ieridat hadorot), come nani sulle spalle di giganti, sono le nuove generazioni che arriveranno ad accogliere il Mashiach. «Il punto è andare avanti, fare la volontà di Hashem e vedere come si può crescere, trasmettendo positività e gioia. ‘Pensa bene e andrà bene’ si dice».
Inoltre, dopo le funzioni rimane aperto uno spazio dove le persone possano ritrovarsi, come in una casa, un luogo di riferimento per la Torah e le mitzvot, dove vengono offerte anche lezioni aperte. «È importante che nel tempio non si parli di discorsi futili durante le preghiere. È dopo, il kiddush, che ci si può incontrare per parlare». Un Kiddush dove, dice Hamra, c’è sempre stata un’atmosfera familiare, amici che ridono insieme e sorseggiano un po’ di whisky. Vi sono inoltre tanti Sifrei Torah donati dai frequentatori, storici e molto pregiati, che quando si apre il parochet dell’Aron HaKodesh offrono uno spettacolo di luce, bellezza e gioia.
«Il nostro augurio è di avere un minian anche in settimana, organizzare degli shabbaton per i giovani, e che vengano di Shabbat tutti gli ebrei della zona, fino a riempire il tempio, come spesso accade durante i chagghim. Ad esempio, qualche anno fa per Shavuot abbiamo organizzato un pasto che ha ospitato ben cento persone. Finché HaShem ha deciso che il tempio rimarrà, non vogliamo trascinarlo in avanti ma farlo volare!». Non a caso studenti da Israele e famiglie di israeliani sono tra i recenti frequentatori e uno spazio giochi per i più piccoli è in progettazione.