di Roberto Zadik
Le sinagoghe erano chiuse, ma le lezioni di Torà non si sono mai fermate. Il Tempio Centrale di via Guastalla, il “polo” Chabad di via Asti, Noam e altri templi e oratori di Milano hanno cercato di mantenere un forte legame con i frequentatori abituali e raggiungere nuovi contatti nel mondo digitale. Poi la riapertura, in sicurezza
Malgrado gli ostacoli e i gravi lutti che hanno colpito duramente la comunità ebraica a causa del Covid 19, la Comunità e le sue strutture religiose hanno continuato a combattere, per mantenere un legame, spirituale, morale e concreto, con gli ebrei milanesi, specialmente nella lunga fase di isolamento domestico e sociale, definita dai media “lockdown” che in inglese significa “confinato”, “segregato”. Un legame che non è mai venuto a mancare, sia tramite internet, sulle nuove piattaforme digitali che abbiamo tutti imparato a usare, sia “dal vivo”, quando finalmente, a metà maggio, dopo tre mesi di chiusura delle sinagoghe, è stato possibile ritrovarsi per le preghiere nei templi, anche se ancora con la modalità del distanziamento e dell’attenzione più vigile. Per il Kiddush del sabato e qualsiasi tipo di “assembramento”, per ora si deve aspettare.
Che cosa è accaduto al Tempio Centrale di via Guastalla
Nonostante siano stati mesi estremamente complessi a causa del Coronavirus, il Rabbinato di Milano si è mantenuto dinamico e reattivo fornendo servizi e lezioni online quotidianamente e lavorando senza sosta. Ricostruendo le varie fasi evolutive di quanto avvenuto da marzo a oggi, la prima reazione è stata – racconta Rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Milano, «la perplessità riguardo al da farsi e lo stupore, l’incredulità, dopo il provvedimento di chiusura dei luoghi di culto, comprese quindi le sinagoghe». Dopo la tensione iniziale, «dovuta alle difficili decisioni riguardo la chiusura immediata di ogni attività, e quando le informazioni che ci arrivavano dalle autorità sanitarie erano spesso contrastanti e confuse, è stato notevole lo sforzo per coordinare le diverse sinagoghe private che arricchiscono la nostra Comunità e che hanno visto nel Rabbinato un punto di riferimento. La nostra principale preoccupazione è stata quella di permettere lo svolgimento delle funzioni non procrastinabili durante il lockdown come le sepolture, per le quali siamo stati in costante contatto con le massime autorità rabbiniche in Israele, con una disponibilità adeguata alla gravissima situazione, coordinandoci anche con il Rabbinato di Roma».
Il Lutto: un momento difficile
Nonostante la pandemia, la sepoltura nell’ebraismo è un diritto fondamentale da garantire sempre e nel rispetto delle norme prescritte dalla Halakhà. Per i vivi è un obbligo, una grandissima mitzvah, nei riguardi della persona defunta. A questo proposito Rav David Sciunnach ha sottolineato la complessità del nostro momento storico, con alcune situazioni decisamente delicate e drammatiche. Funerali senza minian, per il divieto di assembramenti imposto dalle misure governative, dirette su WhatsApp o Zoom per permettere ai parenti dei morti per Covid di partecipare, almeno con la tecnologia, all’estremo congedo dai loro cari. In questo triste periodo, la Comunità di Milano ha subito più di venti decessi, non solo per la pandemia, ma anche per altre patologie: molte persone, molte famiglie in lutto, e molti funerali, non solo di persone anziane. Alcuni drammi attraversati da persone della nostra Comunità sono stati particolarmente strazianti, ricorda il rabbino. Come pure, racconta Rav Sciunnach: «sono stato fortemente scosso e turbato nell’entrare più volte nelle camere mortuarie di alcuni ospedali, con i morti a terra, senza barelle disponibili perché troppi erano i malati che nel frattempo continuavano ad arrivare, allineati sul pavimento, coperti con i soli lenzuoli medicali». Più volte, racconta ancora il rabbino, con i cappellani delle camere mortuarie si è ritrovato a camminare atterrito tra le file dei morti per contagio. Si è rispettata, con impegno e ingegno, la Halakhà «cercando di adeguarsi all’emergenza, facendo tutto quello che andava fatto», sottolinea l’assistente del rabbino capo Alfonso Arbib, con cui era in costante, giornaliero, contatto e confronto. Complessità varie hanno accompagnato il duro lavoro di questi mesi: difficoltà logistiche, dalla burocrazia agli accorgimenti sanitari, effettuando tutto «senza toccare niente e indossando sempre mascherine e guanti», garantendo però il rispetto delle preziose normative specifiche della tradizione ebraica riguardo ai defunti e alle sepolture. Il tutto in un clima di incertezza, sofferenza e provvedimenti governativi che continuavano a cambiare, data l’imprevedibilità del virus e del suo sviluppo, in questi mesi così difficili. Cerimonie «più brevi, perché nello scorso mese di Nissàn si saltavano alcune parti come i Tachanunìm, lo Tziddùq ha-din e le suppliche a D-o», ha specificato Rav Sciunnach, decisamente difficili da svolgere, con familiari residenti all’estero e quindi impossibilitati fisicamente a salutare il caro estinto e a consolare, con la loro presenza reale, gli altri membri della famiglia. E, ancora, l’impossibilità di recitare il Kaddish e le preghiere al tempio per chi è in lutto, data la chiusura delle sinagoghe. Continua Rav Sciunnach: «nonostante queste dolorose difficoltà, la Comunità e il rabbinato hanno prestato tutto il servizio necessario, garantendo il massimo possibile dell’osservanza della Halakhà». Dato che l’Italia è stata colpita prima di altri Paesi dalla pandemia, Rav Sciunnach ha rivelato di aver ricevuto molte telefonate da colleghi rabbini di altri Paesi -Austria, Inghilterra, Grecia e altri ancora- che chiedevano lumi su «come si è comportato il nostro Paese, e il nostro Rabbinato, nel fronteggiare questa emergenza, anche recependo alcune proposte come modello da imitare per quanto sta accadendo nelle loro Comunità».
Mantenere i legami
Per Rav Arbib era soprattutto importante, nonostante le difficoltà tecnologiche, mantenere il contatto con gli iscritti, bloccati in casa e preoccupati, per non fare mai mancare loro le parole della Torà che potessero essere, oltre che di insegnamento, anche di conforto. Sono stati quindi messi in campo diverse iniziative e molto impegno, sia da parte dei Rabbini sia dagli insegnanti del Kollel, per le lezioni in diretta Facebook e riunite successivamente sul canale Youtube del Rabbinato di Milano. «Abbiamo avuto in alcuni casi centinaia di visualizzazioni e ne siamo molto soddisfatti. Le lezioni sono state seguite da un vasto pubblico con numeri ben oltre le nostre aspettative, anche da gente che forse prima non andava a lezione», ha specificato lo staff del Rabbinato. Notevole sforzo è stato profuso anche nel campo della kashrut dove, vista l’emergenza Covid e la concomitanza della pandemia con le festività di Pesach, «c’è stato un massiccio impegno per garantire la distribuzione dei prodotti kasher lePesach, con un lavoro davvero imponente dei nostri Mashgichim che hanno lavorato in continuazione per garantire il miglior servizio possibile». In vista poi della sospirata e graduale riapertura, c’è stato un grande lavoro di coordinamento con gli altri uffici comunitari per riprendere il prima possibile e in totale sicurezza le funzioni (seppur ridotte) della Sinagoga Centrale, che hanno incontrato da subito il favore dei frequentatori che, dopo settimane di isolamento, si sono ritrovati insieme, soprattutto negli shabbatot e nella festività di Shavuòt.
Rav Igal: la vita dell’oratorio di via Asti nei mesi del Covid 19
Soddisfatto dopo queste difficili settimane, Rav Igal Hazan, Rabbino di riferimento della frequentata sinagoga di via Asti che, nonostante l’emergenza Covid, ha saputo mantenersi dinamica e reattiva. «Abbiamo ripreso da pochi giorni e siamo da una parte felici – ha affermato – e dall’altra parte molto provati, le preghiere di due ore con la mascherina sono molto impegnative. Nonostante questo, grazie alla scrupolosa diligenza di tutti, siamo stati davvero ligi alle regole, tutto si è svolto con tranquillità. Anche per l’importante festività di Shavuòt abbiamo avuto una discreta affluenza e tre hazanim si sono dati il cambio durante la preghiera di venerdì e di Shabbat». Rispettando gli obblighi di distanziamento sociale, l’uso di guanti e mascherine «la capienza dell’area maschile di 28 posti è stata riempita e abbiamo avuto sempre minian, senza troppi problemi». Sebbene non si siano tenuti i Kiddushim, per questioni di sicurezza, e ci fosse un normale clima di prudenza e autocontrollo con la pandemia ancora in corso, tutto si è svolto con una certa serenità. Segno che la voglia di ricominciare una vita ebraica normale, con i suoi ritmi e i suoi riti, è più forte di ogni cosa.
Noam: una ripresa con grande prudenza e secondo le regole
Dopo la fase di chiusura generalizzata, la sinagoga del Noam ha ripreso le sue attività, ma con cautela. «Nonostante la situazione dopo i mesi di lockdown – ha evidenziato Rav Simantov, rabbino di riferimento del tempio della comunità persiana, duramente colpita dal Covid, – da metà maggio i minianim si sono svolti regolarmente anche se con ingressi limitati, seguendo i percorsi di entrata e uscita e prendendo tutte le precauzioni». Preghiere regolari a Shavuot anche se «quest’anno la nottata di studio in tempio non si è tenuta» e la tefillà è avvenuta all’alba, evitando assembramenti. «Per adesso, per questioni di spazio, alla preghiera partecipano solamente gli uomini e alcune donne che hanno dovuto presenziare per i Kaddish delle persone scomparse».
Tempio via dei Gracchi: preghiere all’aperto in un campo sportivo
Dino Fubini, referente della sinagoga della Comunità siro-libanese “Josef Tehillot” di via dei Gracchi, ha raccontato che le preghiere di queste settimane si sono svolte, per evitare raggruppamenti di persone e spazi chiusi, in un campo sportivo. Situato in zona Washington, la struttura ha ospitato le preghiere che sono avvenute «rispettando le distanze di sicurezza, l’uso di gel disinfettante e provando la febbre a ognuno, all’ingresso, in un clima di relativa serenità».