di Fiona Diwan
Israele / Studiare alla IDC University
L’immenso albero di jacaranda è quasi un landmark del campus. Ma ancor più strano è passeggiare tra i building di questa vecchia base dell’aeronautica militare, l’Air Force di Tsahal, oggi trasformata in campus universitario, e imbattersi in copie di antichità greco-romane, statue disseminate tra vialetti di eucalipti e alberi d’arancio. Le costruzioni ultramoderne in vetro e cemento si mescolano con i building riconvertiti e gli hangar storici: 21 anni fa apriva i battenti l’IDC di Herzliya (Inter Disciplinary Center), nata da un sogno del suo fondatore Uriel Reichman (avvocato, parlamentare alla Knesset, tra i fondatori dei partiti Shinui e Kadima), e diventata oggi una tra le università private più prestigiose, con accordi di scambio tra docenti e studenti con gli atenei di Princeton (che è in partnership solo con la Oxford University UK e con Sciences Po a Parigi), con la Bocconi di Milano, con i più importanti atenei asiatici, le Business School and Managment di Pechino, Hong Kong, Singapore, Corea del Sud.
Tra i sette e gli otto mila studenti l’anno, lezioni in inglese e in ebraico, due siti web d’informazione gestita dagli stessi ragazzi, sette corsi di laurea, Psicologia, Business Administration, Comunicazione, Economia, Government e Diplomazia, Computer Science (e presto un corso di laurea in “Sostenibilità imprenditoriale ed ecologia”): l’offerta formativa dell’IDC è oggi piuttosto articolata, punta su un modello di studio che contempla ricadute pragmatiche e di apprendistato, con un occhio al mercato del lavoro, e si ispira al modello didattico americano.
Un ateneo privato che attrae studenti ebrei da tutto il mondo, anche da Milano. Di questi 7000 studenti, sono 1900 quelli che studiano in lingua inglese; il restante 5100, israeliani, in ebraico. I giovani stranieri provengono da 86 paesi diversi. Ecco i numeri: 600 ragazzi dagli Stati Uniti, 100 dal Canada, 150 dal Sudamerica, 250 dalla Francia, 60 dall’Italia, 70 dall’Inghilterra, 50 dal Sudafrica, 30 dalla Svizzera, 20 dalla Spagna, 20 dalla Turchia, 5 dalla Grecia…
«Oltre alla qualità, quello che ci contraddistingue è la nostra filosofia pedagogica, che si basa sulla disponibilità del corpo insegnante a incontrare gli studenti, una mancanza di barriere tra ragazzi e docenti davvero unica. Nessuna aura sacrale, nessuna ieratica distanza o soggezione: all’IDC lo studente è un partner dell’insegnante, sa di poter trovare ascolto quando vorrà, e che la porta dell’ufficio di un professore è sempre aperta. Niente burocrazia o gerarchia. Mangiando nello stesso ristorante universitario e bevendo alla stessa Cafeteria del campus, professori e ragazzi imparano a conoscersi, si incontrano tutti i giorni e la cosa crea un incredibile legame. In nessun altra università israeliana questo accade. In genere, negli atenei, gli insegnanti spesso si considerano una casta di eletti che amerebbe applicarsi solo al nobile scopo della ricerca, non sempre entusiasta di dedicarsi alla didattica. Professori irraggiungibili, un contatto con gli studenti che si limita al tempo della lezione frontale. Il nostro stile è invece l’opposto. Siamo un’università privata: abbiamo i professori migliori perché li paghiamo meglio. Ci sta a cuore la “student satisfaction” e, non a caso, la nostra è tra le più alte d’Israele», spiega Jonathan Davis, vice presidente Relazioni esterne dell’IDC -e direttore del RRIS, la sezione in lingua inglese-, un ateneo noto a tutti in Israele sotto il nome di Bein Tchumì. Un piglio deciso, quasi marziale, Davis cita Herzl e Jabotinski, Trumpeldor e Ber Borochov, la nomenclatura dei padri nobili di Israele. «L’IDC è un’università molto patriottica, lo sa? Ci sentiamo gli eredi dei padri fondatori di questo Paese e dei loro valori sionisti, eredi spirituali di Ben Gurion, Weizmann, Golda Meir…: 800 ufficiali dell’esercito israeliano hanno studiato qui. E il 70 per cento degli studenti stranieri decidono di fare l’aliyà dopo aver studiato all’IDC. Siamo tra le università di eccellenza di questo Paese, non diamo solo formazione ma senso di appartenenza a Israele. Non è banale, mi creda, molti atenei hanno perduto questo legame con i pionieri di un tempo e con l’idea challutzistica di chi ha edificato questo Paese. All’IDC si studia in inglese o in ebraico, e non è un caso se molti israeliani decidono di frequentare l’IDC proprio grazie al programma di facilitazioni che l’ateneo mette a disposizione dei giovani che devono fare i riservisti, i miluim, dopo la Tzavà: venendo richiamati ogni anno salterebbero alcuni mesi di studio. L’IDC li mette in pari, li aiuta a recuperare le lezioni perdute fornendo registrazioni e materiale scritto delle lezioni. Questo intendo quando parlo di “università sionista”: aiutare i giovani a elevare il proprio livello di studio e formazione senza penalizzare il dovere verso il Paese».
«Oggi, più del 32 per cento dei nostri studenti viene dal Vecchio Continente», dichiara Mimi Laufer, direttore marketing dell’IDC, «abbiamo la più alta concentrazione di studenti europei di tutti gli atenei israeliani. La crescita è del 15 per cento annuo: i francesi ad esempio, presentano un incremento di studenti del 50 per cento nell’ultimo anno, mentre la crescita degli studenti dall’Italia è del 100 per 100».
«Facciamo il massimo per far sentire a casa i nostri studenti. Ed è per me un motivo di orgoglio. Dopo la tragedia di Charlie Hebdo e dell’Hypercasher, ad esempio, per coinvolgere i francesi, abbiamo introdotto una cerimonia collettiva in memoria di chi ha perso la vita durante quegli attentati», dichiara Uriel Reichman, fondatore e presidente dell’IDC.
Infine i due siti web, tutti gestiti dagli studenti. Brillante, con un linguaggio scoppiettante, prodotto da 30 studenti dell’IDC, il sito Nocamels.com posta e diffonde news su scoperte scientifiche e tecnologiche, start up e innovazione made in Israel (“Come il DNA degli elefanti può aiutarci a sconfiggere il cancro”. “Design spaziale: come immaginereste una casa su Marte? La Nasa adotta un progetto israeliano”). E poi ancora un sito, Operation room, focalizzato invece sulla bruciante attualità e sui conflitti, sempre gestito dagli studenti. Un sistema di comunicazione che raggiunge circa 40 milioni di utenti nel mondo e che impiega 600 volontari, 24 ore su 24, per il caricamento delle notizie. Non basterebbe altro per raccontare le qualità di questo laboratorio del domani chiamato IDC.
FORMAZIONE E LAVORO: LA PAROLA AGLI STUDENTI MILANESI
Sono sessanta gli studenti venuti dall’Italia che oggi frequentano l’IDC. Ecco alcune impressioni fornite dai ragazzi di Milano da poco laureati all’IDC.
«È stata la migliore esperienza della mia vita e sarò per sempre grata all’IDC per avermi dato la chance di crescere qui». Alessandra Meghnagi, Business e Economia.
«Dopo il liceo volevo venire in Israele; l’IDC non è stato per me solo un luogo dove studiare… ma la mia nuova famiglia». David Brima, Comunicazione
«Mi ha dato l’opportunità di vivere in Israele e di studiare in inglese con alcuni tra i migliori professori di studi psicologici. Una grande esperienza sia sul piano accademico che personale». Lily Metta, Psicologia.
«I tre anni passati qui mi hanno dato molto, facendomi crescere sul piano professionale, relazionale e di conoscenza. Dopo la maturità volevo confrontarmi con Israele: è stata una nuova e stimolante esperienza». Samuel Guidi, Comunicazione.
«È grazie alla mia esperienza all’IDC che ho deciso di vivere in Israele e non tornare a Milano. Dopo la laurea e con l’aiuto dell’Università, ho subito trovato lavoro in una start-up company, la Mifold. Ecco perché l’IDC – e il RRIS -, è diventata la mia casa lontano da casa, e grazie a questo ora vivo felicemente qui». Davide Gandus, Comunicazione
«Studiare all’IDC non è stato solo una questione di diploma o di avvio di carriera professionale. Ha voluto dire crescere in un ambiente dinamico, culturalmente diverso, misurarmi con persone che avevano background opposti al mio, interagire con i migliori professori e con gente interessante. Oggi lavoro a Mediobanca, a Milano, nell’ufficio comunicazione, una delle realtà più frenetiche e imprevedibili che ci siano in giro. Ho imparato a essere flessibile, adattabile; anzi, ad anticipare tutte le nuove forme di comunicazione dell’era digitale. E ho realizzato che i miei tre anni all’IDC sono stati essenziali per formare la persona che sono oggi, per il ruolo professionale che ho finito per ricoprire qui, e per tutto quello che il futuro avrà in serbo per me». Sonia Hason, Comunicazione.