Arte – Mostre/ Marco Cingolani. Anni ’80-’90, c’eravamo tanto amati…

Arte

di Fiona Diwan

 

Ogni tanto fa bene ricordare com’eravamo. Non per passatismo o, peggio, per tardivo compiacimento narcisistico. Semplicemente per misurare la distanza di un cammino compiuto o forse, per capire meglio l’oggi grazie alle turbolenze della memoria di ieri.

Com’eravamo: ovvero tuffarsi in un’epoca che era solo venti o trent’anni fa ma che ci appare sideralmente distante da questo presente angoscioso, polarizzato, un adesso tiranneggiato da autocrazie grifagne e minacciose, un tempo di nuovi puritani e di caccia alle streghe, dominato da una cultura della colpevolezza che ama sanzionare se stessa e dal culto ossessivo della vittimizzazione. Un’epoca precipitata in una buia entropia, questa, che nulla ha a che fare col caos anarchico e spumeggiante di una delle tante stagioni effervescenti del XX secolo, in particolare l’ultimo ventennio del Novecento, gli anni Ottanta e Novanta sulla scena di una Milano vivida, aperta, ricchissima di stimoli e di voci fuori dal coro.

 

Visitare adesso la mostra di Marco Cingolani (Galleria Gaburro, via Cerva 25), 63 anni, docente di pittura all’Accademia di Brera e protagonista della scena artistica italiana degli ultimi decenni, è come mettere piede dentro un caleidoscopio luminescente, un vortice coloratissimo che ci catapulta nella storia del nostro recente passato, un passato mediato dalla sensibilità acrilica e vagamente psichedelica di una creatività, quella di Cingolani, che è molto meno giocosa di quanto appaia. Tentacoli di memoria che si allungano su mitologie, cronache, illusioni, simboli, icone del nostro tempo passato e presente, e su cui Marco Cingolani riflette da sempre con ardore, spirito di gioco e ironia.

In questa mostra importante sfila tutta la parabola artistica di Cingolani, una sintesi di quarant’anni d’intenso lavoro: c’è l’eclettismo, c’è la passione allegramente voyeuristica per la cronaca, c’è l’attenzione per i fatti dell’Attualità, il punk psichedelico e l’erotismo soft, il Post-Pop e il verso fatto a Andy Warhol, lo sberleffo all’epoca dei “quindici minuti di celebrità che non si negano a nessuno”; c’è l’impero dei sensi e dei segni (Nagisa Oshima e Roland Barthes), l’epoca del famigerato edonismo reaganiano… C’è la tirannia dei mass media, le icone cult, le curiosità di Cingolani per certi personaggi (Miles Davies, Iris Apfel, Sofia Gubaidulina, Enrico Mattei, Giacomo Puccini…), insomma miseria e nobiltà degli anni Ottanta e Novanta con i suoi veri e falsi miti, i suoi repéchage,  il senso del nuovo e l’amore per la paccottiglia, per la disco music, i lustrini, il travestitismo e le mitologie mediatiche, il culto giornalistico dello scoop e delle interviste, il dominio dei mass-media nell’epoca pre-digitale e il Quinto potere prima di Internet. Uno storytelling che srotola i decenni fino a lambire il nostro presente, dall’epoca dei paparazzi e delle foto rubate, ai rotocalchi dei grandi scandali che appassionarono il pubblico; e ancora, tutto l’amore della sensibilità post-moderna per il nazional-popolare purché sia avvolto in riferimenti aulici e capitomboli interpretativi.

 

Passione per la cronaca e l’attualità, dicevamo: Cingolani le racconta con immagini e fotografie d’epoca sporcate e reinventate da pennellate irriverenti, ironiche, a volte dolenti, colore su un fondo in bianco e nero. Ci sono gli scontri di Valle Giulia (1968), i quadri ispirati al ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Fani (1978), le tele raffiguranti i colpi di pistola sparati da Ali Agca a Papa Wojtila in piazza San Pietro (1981), l’attentato alla sinagoga di Roma nel 1982 e la bara aperta e vuota lasciata nottetempo, a sfregio antisemita e minaccioso, in pieno ghetto romano in Portico d’Ottavia (e col mondo ebraico italiano che ci metterà anni per risollevarsi dallo choc di quel trauma collettivo). O ancora, le immense tele ispirate ai personaggi della Bibbia ebraica o del Nuovo Testamento.

 

La mostra di Marco Cingolani inaugurata negli spazi ariosi della Galleria Gaburro (via Cerva 25, fino al 15 settembre 2024), è una grande occasione di riflessione . Nel titolo scelto da Cingolani risulta evidente il riferimento al celeberrimo quadro di Gustave Courbet: Atelier du peintre – Piccola Antologia di colori, persone, opere ed omissioni. Una mostra che per Cingolani è certamente un punto d’arrivo e forse di nuove partenze, una cavalcata solenne in 40 anni di lavoro artistico nelle sue diverse e prolifiche stagioni creative.

A partire dai primi successi negli anni Ottanta e Novanta: gli esordi di Marco Cingolani risalgono alle mostre nella galleria di Luciano Ingapin in via Pontaccio, riflessioni sull’oggetto d’arte come merce “nell’epoca della sua riproducibilità”, quelle decine di piccoli orinatoi in miniatura alla Duchamp che decise di esporre e dispiegare su un telo da vu’cumprà proprio sul marciapiede davanti all’ingresso della galleria, sberleffo irriverente e ironico di una tradizione fin troppo sacralizzata. E che confermano l’appartenenza di Cingolani a quelle “voci fuori dal coro” – come le chiama il critico Giulio Ciavoliello –  che fu il gruppo di artisti milanesi degli anni Ottanta-Novanta (Stefano Arienti, Massimo Kaufmann, Mario Della Vedova, Amedeo Martegani…), caratterizzati da una prepotente soggettività e da poetiche certo dissimili tra loro ma accomunate a un identico spirito anti-ideologico e anti-dogmatico, un’aria di libertà in netta contrapposizione con l’universo giovanile asfittico e animato dall’impegno politico che poi sfociò nella stagione degli Anni di Piombo.

 

In questo Atelier du peintre, c’è tutto il caos sulfureo e pop dello studio milanese di Cingolani, la sua febbrile frenesia dell’accumulo, l’affastellarsi di libri, oggetti bizzarri, vecchi giornali, reperti di strada e paccottiglia, libri assurdi raccattati sulle bancarelle, padelle e pentole sporche di colore, tubetti sprimacciati, spazzole sporche e usate per spalmare il colore sulla tela, pennelli ordinati e dritti come asparagi come fossero lì per essere riposti sullo scaffale di un laboratorio di prodotti-reperti-strumenti d’artista (più che wunderkammer, uno strabordante magazzino di mitologie personali, immagini e oggetti d’affezione privatissimi). Una mostra che è anche il teatro e la rappresentazione del lavoro d’artista ma anche un voler mostrare “quella mutazione magica e alchemica che è il gesto d’artista”, per offrire allo spettatore “una feritoia attraverso la quale osservarlo”, spiarlo, scrive il critico Matteo Scabeni.

Una texture esistenziale che si fa passione visiva, una mostra “titanica” (per il copioso numero di opere esposte) e “totemica” (per la fulminante capacità di censimento di un numero significativo di simboli, oggetti cult e icone). L’appassionata catalogazione d’immagini e volti che si fanno tela e colore, ritratto ed emblema, cromie piatte e mai tridimensionali per raccontare un’esperienza artistica che oggi meriterebbe una rilettura e rinnovata attenzione.