di Fiona Diwan
Esiste un Jewish Eye nella fotografia contemporanea? Sì. Scatti in cui alberga il cuore di tenebra di un vissuto ebraico marginale, che ha visto persecuzione, razzismo, annientamento, oscurità. Uno sguardo antieroico, inquieto, emozionale. In mostra a Milano le immagini-capolavoro di Richard Avedon
Ascher Fellig, in arte Weegee, era attratto dalla scena del crimine come il ferro con la calamita, perdutamente innamorato di una New York noir che lui sapeva immortalare con la macchina fotografica nella sua sordida e canagliesca nudità, nei suoi aspetti più estremi, marginali, a volte grotteschi di cronaca nera; era nato nella Galizia polacca, figlio di un rabbino-venditore ambulante, egli stesso avviato agli studi rabbinici, poi abbandonati: erano tutti sbarcati a Ellis Island all’inizio del XX secolo, in fuga dai pogrom.
Helmut Neustadter, in arte Helmut Newton, era invece figlio della borghesia ebraica culturalmente illuminata e sofisticata della Berlino tra le due guerre mondiali, un autentico yekke: scappati dalla Germania nazista via Trieste e Singapore, sbarcato in Australia e poi negli Stati Uniti, aveva portato con sé in valigia lo sguardo eccessivo e spietato dell’estetica dell’Espressionismo tedesco, l’interesse per gli aspetti trasgressivi della vita, trasponendolo nei ritratti fotografici di un femminile dominatore, a tratti mascolino e gelido, attento a sottolineare gli aspetti perversi della relazione uomo-donna: la capacità di Newton di cogliere lo spirito del tempo e catturarne le polimorfe derive aveva fatto sì che intercettasse in modo stupefacente l’edonismo ludico, cinico e disimpegnato degli anni Ottanta del secolo XX.
Per Diane Nemerov, in arte Diane Arbus, figlia della buona borghesia ebraica newyorkese, si trattava invece di cogliere gli esseri umani nella loro diversità, lontani da una “normalità” data per scontata, normalità considerta impossibile e illusoria: celeberrimi i suoi ritratti di nani, disabili, freaks, vite marginali di persone considerate solitamente malate, “mostruose”. Arbus catturava l’aspetto sofferto e struggente della vita incarnata in corpi irrimediabilmente “diversi”.
E ancora: Richard Avedon, un talento fotografico multiforme, poliedrico, versatilità e eclettismo, l’eleganza inarrivabile dei suoi shooting di moda, le star e i personaggi famosi colti nell’istante sommesso di un’emozione che affiora, clic memorabili e sguardi come nuvole in viaggio. Ecco la sua Marylin malinconica e Henry Kissinger dal volto enigmatico, Andy Warhol con i segni delle coltellate sul ventre e Bob Dylan perennemente imbronciato, John F. Kennedy e Brigitte Bardot, Sophia Loren e Kate Moss, quasi un secolo di ritratti entrati nel mito, il riassunto visivo di un’epoca. E poi gli scatti intimi, il padre Israel Jacob Avedon sul letto di morte ma anche gli umiliati e offesi, gli operai piegati dalla fatica, le diseguaglianze sociali, le proteste afroamericane degli anni Sessanta. Figlio di ebrei russi riparati in America a inizio secolo, Richard Avedon incarnerà una doppia sensibilità dal tratto tipicamente ebraico, l’essere fuori-e-dentro, il bisogno di aderire all’establishment, di essere accettati nel salotto buono della società maggioritaria e insieme la capacità di coglierne il dérapage, le contraddizioni e le pieghe nascoste, ivi comprese le derive intime e emozionali dei suoi personaggi (ad Avedon, alla sua incredibile parabola artistica, Palazzo Reale a Milano dedica oggi una mostra, fino a fine gennaio 2023).
Colpisce notare come l’avventura della fotografia del XX secolo sia così fittamente intessuta di personaggi con un vissuto famigliare ebraico, tanto più sorprendente se pensiamo a una cultura che si vuole severamente anti-figurativa, anti-visuale e rifuggente le raffigurazioni, aniconica e incline a prediligere l’astrazione delle forme (a quando una mostra che ne storicizzi il fenomeno e racconti una presenza ebraica così numerosa nei maestri della fotografia contemporanea?). Poiché, a ben guardare, la lista dell’“occhio ebraico” potrebbe essere davvero lunga, oltre ai nomi sopra citati: Alfred Stieglitz e Paul Strand, Man Ray e Andreè Kertesz, Laszlo Moholy-Nagy e Lyonel Feininger, Robert Capa, Gisele Freund e Eric Salomon, Ben Shan e Gary Winogrand, Joel Meyerowitz e Elliott Erwitt, solo per citarne una minima parte.
Sebbene alcuni di loro si frequentassero e conoscessero (ad esempio Richard Avedon e Diane Arbus), raramente le loro vite s’intrecciano. Piuttosto, corrono parallele come in una molteplice sequenza di binari adagiati gli uni accanto agli altri, uniti tuttavia da tratti originari comuni, l’Europa delle loro famiglie come un crocevia di esperienze e memoria, la condizione di esuli e sradicati, uno smarrimento esistenziale esito di un destino ebraico paradigma di una condizione dell’uomo contemporaneo nella sua esperienza di smarrimento e senso di perdita, di esilio esistenziale, della condizione di displaced person in un altrove straniante e respingente.
Dicevamo che ciascuno di loro ha storie individuali non sempre assimilabili l’una all’altra. Eppure, una più accorta lettura ci mostra una contiguità sensibile e un quid che non possono non colpire. Marginalità e il perenne sentimento di abitare in un altrove, un profondo senso di dislocazione, un’etica della protesta e il fondamentale tema del disvelamento. La fotografia non è forse un disvelamento, un rendere visibile l’invisibile? Il cogliere il volto celato delle cose, quello che nella tradizione ebraica è il Dio nascosto di cui l’uomo deve andare in cerca; come scrive il filosofo Emmanuel Levinas in Difficile Libertè, “soltanto l’uomo che aveva riconosciuto il Dio velato può esigere il disvelamento”; oppure, com’è scritto nel Talmud, trattato di Chagigà, “chiunque non è nella condizione del nascondimento del volto di Dio, chiunque non è testimone del silenzio, non fa parte del popolo d’Israele (Mi sheenò beHester panim enò mehem)”.
Un Dio nascosto ma anche molto tachless, terreno. In confronto a quello della civiltà greca, l’umanesimo ebraico lascia stupiti per la sua “ansia di rapporti umani così costante e così prevalente che, anche dove nominalmente è presente Dio, si tratta ancora dell’uomo e di ciò che c’è tra uomo e uomo”, scriveva il poeta Maurice Blanchot (L’infinito intrattenimento). Nel momento in cui l’ebraismo parla di Dio in realtà fa sempre riferimento all’uomo, perché per sapere di Dio è necessario conoscere di più gli uomini che sono le Sue creature, la sua immagine. La qual cosa potrebbe spiegare il perché di una specie di “sguardo religioso” sulla vita, una ebreitudine come condizione sacerdotale in cui l’uomo, fatto a immagine dell’Onnipotente, è il vero centro di tutto, depositario delle due nature, divina e umana, in una entente cordiale quasi sempre disattesa, sempre conflittuale ma vivificante.
Ecco allora immagini (come quelle di Avedon) che spesso mostrano un mistero in piena luce, rilevato quasi per contrasto chiaroscurale, come se la razionalità dello sguardo contrastasse con un “al di là” del senso, con l’essenza di un mistero che sempre ha a che fare con la natura umana, con i suoi impulsi sotterranei, luminosi o efferati che siano, una clandestinità emotiva dentro cui infilare paure e senso di perdita, pulsioni non addomesticabili, le speranze e le tristezze, insomma l’intera panoplia emozionale che si cela dietro le occorrenze della vita e del reale. Una fotografia che cerca chiarezza nell’oscurità? O che racconta piuttosto questa oscurità? Poco importa. Quelli che sembrano emergere sono gli aspetti irrazionali, anti-eroici, emotivi, inquieti, anti-retorici, traslucidi su fondo oscuro. Una fotografia in cui alberga il cuore di tenebra di un vissuto ebraico che nelle terre d’Europa ha visto razzismo, persecuzione, annientamento, la notte di Treblinka ma anche lo sradicamento e la condizione di fuggiasco e profugo, un retaggio famigliare che fa da pavimentazione psichica a una sensibilità esasperata e comune, che plasma lo sguardo e l’interiorità del fotografo-narratore, da Weegee a Diane Arbus, da Ben Shan a Richard Avedon a Joel Meyerowitz…
Guardare e raccontare dall’oscurità e contro di essa, tanto per citare Goethe, in una poetica del disvelamento che è un tema centrale nella visione e nella sensibilità ebraica. Ecco allora il leitmotif della dislocazione, l’essere costretto in un altrove perenne (nel ghetto interiore o reale, in una no man’s land segnata dalla diversità e alterità): stretta dentro una dimensione di entropia psicologica e marginalità sociale, la condizione ebraica mette a fuoco una capacità di riconoscere e cogliere l’Altro a partire dalla propria particolare condizione sociale e interiore, pubblica e privata.
Jean Blanchaert: Esiste un “modo ebraico” di fotografare?
Innamorati della macchina fotografica, per raccontare l’esilio
Esiste un “modo ebraico” di fotografare, che scavalchi le biografie, i confini geografici, le epoche? Si direbbe di sì, visto che è stato possibile parlare di una letteratura ebraica, di umorismo ebraico e di musica ebraica. Ma quanto alla fotografia, in che cosa consiste? Quali sono i tratti comuni? L’emancipazione ebraica e la fotografia sono nate e cresciute nello stesso periodo. Pochissimi tra questi “fotografi ebrei” sono stati praticanti, tutti ugualmente riluttanti a riconoscersi pubblicamente in una identità scomoda, reticenti nel parlare della propria genealogia. “Lo si è ma non lo si dice. Io so che tu sai che io so. Tu sai che io so che tu sai. Eppure, non ne parliamo mai”. È anche una forma di eleganza, un modo per affermarsi veramente al di sopra e al di là delle proprie origini.
Mi è capitato più di una volta, in trent’anni di militanza nel mondo dell’arte, di assistere a conversazioni in inglese fra creativi ebrei o israeliani. Non gradiscono essere giudicati come designer, artisti o architetti ebrei ma pretendono, giustamente, che il giudizio sul loro lavoro prescinda dall’appartenenza identitaria.
Sono il destino comune e il vissuto famigliare ciò che tiene assieme i percorsi dei fotografi di origine ebraica durante tutto il XX secolo. In particolare la necessità, per molti di loro, di emigrare dall’Europa Orientale per sfuggire allo sterminio, prima ai pogrom, dopo ad Auschwitz. Fuggono dall’odio verso Paesi dove saranno tacciati di “stranieri ostili”, gente di serie B. La fotografia è considerata in quell’epoca un lavoro dequalificato, per poveracci, e diventerà per un rifugiato acculturato, per un emarginato culturalmente sofisticato, un autentico approdo nonché un nuovo linguaggio espressivo con cui veicolare una visione o un preciso modo di guardare il mondo e il destino umano.
Ecco perché “l’occhio ebraico” si è avvicinato alla fotografia con la stessa bramosia di novità che aveva caratterizzato i suoi esordi letterari. Alla fine dell‘800 e agli inizi dell‘900, sviluppare un negativo e stamparlo era una operazione “magica”, difficile per chiunque si avvicinasse alla fotografia. Come se non bastasse, lo sguardo ebraico veniva doppiamente stimolato dalla novità fotografica proprio perché proveniva da una cultura aniconica: l’ebbrezza pionieristica del nuovo era così duplice e raddoppiata perché trasgressiva rispetto alla propria tradizione di partenza. Secondo un altro maestro della fotografia, William Klein, esisteva la fotografia degli ebrei e quella dei gentili. I primi erano fotografi eccentrici, voraci, sempre alla ricerca di qualcosa oltre, qualcosa di celato; i secondi invece, eredi della tradizione pittorica secolare, “andavano per boschi e prati”, – come ad esempio Ansel Adams -, ed erano calmi, posati, sicuri, amavano classificare e osservare la natura. Qualcosa di lontanissimo dai giovani sbarcati con le famiglie a Ellis Island: guardare l’America con gli occhi del migrante, con lo sguardo dell’Europa dell’Est divenne un tutt’uno con la sete di nuove immagini e la possibilità di immortalarle. E fu, per la sensibilità ebraica, qualcosa di ubriacante.
Jean Blanchaert