di Rossella De Pas
Piccole fibbie-sculture giapponesi generalmente in avorio o in legno: ecco cosa sono i netsuke, la cui origine risale probabilmente al XV secolo. Forate da due buchi per i quali passava un cordoncino in seta, erano destinate a fissare alla cintura del kimono la scatoletta delle medicine o la scatola del tabacco o l’astuccio della pipa. Collocati sugli abiti, questi accessori non avevano solo uno scopo pratico ma venivano anche usati come ornamento. Di fatto il gusto europeo per i netsuke giapponesi, e l’ossessione collezionistica che ne derivò, parte in pieno Ottocento, da quando il Giappone prese parte all’Esposizione universale di Parigi nel 1867 e di Vienna nel 1873: è a partire da quella data che le arti e i manufatti giapponesi divennero alla moda -con un movimento e un’estetica che si prese il nome di Japonisme-, e che anche i netsuke ricevettero grande attenzione. Fu così che, spinto dalla nuova moda japoniste, Charles Ephrussi acquistò 264 netsuke facendo costruire un’apposita vetrina dove riporli nella sua casa di rue de Monceau (Hotel Ephrussi), nell’VIII Arrondissement. “…Una vetrina di legno nero, lucido come lacca, e più alta di lui, un metro e ottantacinque circa. Oltre che davanti, aveva pannelli di vetro anche sui lati, mentre uno specchio sul fondo del mobile moltiplicava all’infinito i netsuke disposti sopra un uniforme velluto verde scuro che ne esaltava le quasi impercettibili variazioni di colore…”. Una vicenda originale e straordinariamente raccontata quella che ci arriva oggi, sotto forma di romanzo-memoir, da Edmund De Waal, nel libro Un’eredità d’avorio e ambra (Bollati Boringhieri, Collana Varianti, pp. 398, €18,00). La famiglia Ephrussi, originaria di Odessa, era una delle tante famiglie ebraiche che aveva fatto fortuna a Parigi raggiungendo una certa agiata opulenza: infatti, se da un lato James de Rotschild era chiamato le Roi de Juifs, il re deli ebrei, dall’altro Charles Ephrussi, superata la smania giovanile di affermarsi, era diventato “le bénédictin-dandy de la rue de Monceau”, un severo erudito in soprabito nero. A trent’anni, con la sua amante Louise Cahen d’Anverse e il nuovo incarico di direttore del giornale La Gazzette, era ormai un uomo maturo e formato. A quarant’anni era già un apprezzato esteta ed intellettuale: vicino al “movimento degli Impressionisti”, collezionista, dandy, assiduo frequentatore dell’Opéra, è nel 1891 che “regala ai netsuke una nuova dimora in avenue d’Iéna”. Gli Ephrussi sono a Parigi solo da un ventennio ma sono ricchi ed importanti: la loro banca è sempre più solida e, di conseguenza, sempre più malvista dai numerosi antisemiti; Charles e i suoi fratelli, tuttora cittadini russi, venivano identificati come i tipici ebrei, francesi solo in seconda battuta. Non dimentichiamoci che sono gli anni dei dolenti J’accuse di Emile Zola e dello choc dell’Affaire Dreyfuss. “Parigi si divise traumaticamente nelle avverse e inconciliabili fazioni di colpevolisti e innocentisti: amicizie si interruppero bruscamente, famiglie si spaccarono e i salotti dove un tempo si riunivano ebrei e velati antisemiti divennero terreno di scontro aperto.Tra gli artisti amici di Charles Ephrussi, il pittore Degas divenne il più acceso anti-dreyfusista, tanto da troncare qualsiasi rapporto con Charles e con l’ebreo Pissarro… Per Charles, Parigi assume un aspetto diverso. Ora Charles è un mondain al quale vengono chiuse le porte in faccia, un mecenate ostracizzato da alcuni dei suoi stessi artisti”. All’alba del nuovo secolo, il cugino di Charles, Viktor von Ephrussi è prossimo alle nozze a Vienna; in dono, Charles invia ai futuri sposi la vetrina con i 264 netsuke. Ed ecco che, nel 1899, attraversata l’Europa, i netsuke arrivano al Palais Ephrussi di Vienna, all’angolo tra il Ring e la Schottengasse. Poiché i committenti dei Palais appartenevano ad una classe di nuovi ricchi, la Ringstrasse era abitata principalmente da ebrei. E anche qui viene servita la stessa minestra antisemita. “…a Vienna le accuse rivolte agli ebrei della Zionstrasse … sono sottilmente diverse. Qui, vuole l’opinione pubblica comune, gli ebrei si sono integrati così bene, scimmiottano i gentili con tanta abilità da essere riusciti ad ingannare gli stessi viennesi…”.
Da Parigi a Vienna
Estremamente diversa è la condizione in cui vivono gli ebrei cenciosi e chiassosi della Leopoldstadt, il degradato secondo distretto di Vienna, privo di acqua corrente. Nel 1863, quando Viktor von Ephrussi arriva a Vienna, all’età di tre anni, ci sono meno di ottomila ebrei; nel 1890, quando ormai ha trent’anni, in città abitano 118 mila ebrei; all’epoca del suo matrimonio, nel 1899, ci sono 145 mila ebrei; nel 1910, solo Budapest, Varsavia e New York, hanno una popolazione ebraica più numerosa. Come sottolineava il letterato e scrittore Jacob Wasserman, a cavallo dei due secoli, “…tutta l’opinione pubblica era dominata da ebrei: banche, giornali, teatro, letteratura, manifestazioni sociali…tutto era nelle loro mani…”. E così, nonostante l’antisemitismo si insinui pian piano nella vita quotidiana, la famiglia Ephrussi continua a vivere serenamente. La vetrinetta viene sistemata in una sala che fa da spogliatoio ed i netsuke divengono i giocattoli per bambini, dei tre figli futuri dei giovani sposi. Con la Prima Guerra Mondiale e la disastrosa pace di Saint-Germain-en-Laye, l’Austria e la sua capitale si ritrovano incredibilmente ridimensionate. La crisi economica è fortissima e l’antisemitismo cresce in misura esponenziale: l’ebreo è stato e continua ad essere considerato il principale colpevole di tutti i mali e di tutti i problemi.
E si arriva al 1938, alla svolta nella vita della famiglia Ephrussi, dell’Austria e del mondo intero: dilaga l’odio sociale e i viennesi attaccano i loro vicini ebrei, distruggono le loro case e aspettano impazienti l’arrivo del Fuhrer. La macro-storia si intreccia così inesorabilmente con la micro-storia: con l’avvento del regime nazista, in pochissimo tempo, “…a Vienna non esiste più un Palais Ephrussi, e non esiste più una banca Ephrussi. La città è stata mondata dalla famiglia Ephrussi”, in una totale damnatio memoriae. Viktor riesce in qualche modo a fuggire, come i tre figli; Emmy, la moglie, stanca ed incredula di quanto stava accadendo, probabilmente si suicida. Finita la Guerra, ecco che i netsuke tornano fortunosamente alla famiglia Ephrussi che, in qualche modo, è sopravvissuta alla guerra: nel dicembre 1946, Elisabeth, figlia di Viktor, riceve da Anna, che lavorava come domestica nella loro casa a Vienna, tutti e 264 i netsuke che la donna aveva prodigiosamente sottratto ai tedeschi e custodito. Così, Elisabeth torna in Inghilterra con i netsuke, il suo tesoro ritrovato.Ma i netsuke sono destinati a tornare a casa, nel loro Paese d’origine: nell’ottobre 1947, Iggie von Ephrussi, va a trovare la sorella Elisabeth che gli affida i netsuke: Iggie li porterà con sé in Giappone dove inizierà una nuova vita. “… Non solo le 264 sculture tornano in Giappone, ma sono di nuovo esposte in un salotto… Di sera riescono a illuminare l’intera stanza. Qui, i netsuke tornano giapponesi.” Edmund De Waal, autore del romanzo, nato a Nottingham nel 1964, è il bisnipote di quel Viktor von Ephrussi, il “viennese”: il padre di De Waal era figlio di Elisabeth (quella che ha riconquistato i netsuke), figlia di Viktor. Oggi, DeWaal è storico dell’arte nonchè professore alla Westminster University e famosissimo artista della ceramica inglese. Laureatosi a Cambridge e specializzato in lingua giapponese alla Sheffield University, ha approfondito i suoi studi in Giappone prima di tornare a Londra, dove ora vive e lavora. Un’eredità di avorio e ambra ha ottenuto il consenso di critica e pubblico, ricevendo due tra i più ambiti premi letterari: il Costa Biography e il New Writer of the Year al Galaxy Book Award. Con questo romanzo De Waal è riuscito così a fondere, in un unicum mirabile e commovente, storia personale e competenze professionali, studi e memoria.