di Carlotta Jarach
Un vagone della metropolitana in movimento e fuori dal finestrino la periferia di Berlino; la sagoma di una bicicletta; un pianto disperato di un neonato; la porta di Brandeburgo. Queste le immagini di Back to Berlin, opera video firmata Raul Gabriel, trilogia proiettata all’Auditorium San Fedele, martedì 27 gennaio; ospiti della serata Pierangelo Sequeri, teologo e scrittore, e Haim Baharier, matematico psicoanalista, studioso di ermeneutica biblica e pensiero ebraico.
Difficile descrivere ciò che ci ha mostrato Gabriel: un insieme di emozioni e di suoni, di voci tedesche registrate che si mescolano a musica e al rumore del treno che procede. È tutta un’unica inquadratura: la vista che si ha da un vagone della metropolitana. Dove stiamo andando? Cosa accadrà? L’ansia è palpabile in tutta la sala.
Tenta di parlarne Sequeri, tramite una registrazione, poiché assente per motivi di lavoro. «Non posso più vedere film sulla Shoah – dice – perché sento che c’è qualcosa che si chiude: sono racconti chiusi, che in quanto tali, chiudono. Fanno diventare la Shoah un’icona, una metafora, a volte quasi estetica». Così, continua Sequeri, trasformata in metafora la si può associare a tutto e a nulla: ma c’è qualcosa di profondamente diverso in questa vicenda, dove il logos diventa protagonista. È la ragione infatti che si fa soggetto, in quanto ha dato prova della sua malignità mortale: «e ciò non si può indifferentemente spalmare sul reale».
Il logo della bicicletta sul finestrino della metropolitana, che si muove pur stando immobile, asserisce Sequeri, viene dal passato, col suo colore bianco, trasparente, e si muove su un treno che invece è reale, legato al macchinista che lo mette in moto. «La Bicicletta ripercorre così il tempo e lo spazio all’indietro». Sì, perché non è chiaro fin da subito, ma il video di Gabriel è all’incontrario: solo quando vediamo le prime persone, che si muovono come se qualcuno stesse facendo il rewind, solo allora ci rendiamo conto che stiamo davvero “tornando a Berlino“. La bicicletta è viva e reale, e compie quel cammino a ritroso che dovrebbe essere anche il nostro; più passa il tempo, più sembra che questa enormità che è la Shoah, in fondo, sia in grado non solo di commuoverci ma anche di ferirci. «C’è una chiara provocazione, poiché l’intenzione è proprio ‘ferire’: anno dopo anno ci sembra di sapere tutto, ma forse non siamo ancora stati feriti abbastanza».
Se non ci feriamo, conclude Sequeri, non ci sarà per noi memoria, non ci sarà per noi né simbolo né metafora; solo ferendoci potremo fronteggiare la presunzione della ragione. E chiude così «La memoria e la rappresentazione ci commuovono ma non ci salvano: la continua ferita per lo meno ci riscatta».
È poi il turno di Haim Baharier: «È di una tristezza infinita – dice – questa ripetitività, nella celebrazione del Giorno della Memoria come nel film: con la trilogia vi era un’eterna attesa che accadesse qualcosa, e non ci rendevamo conto che era già accaduto, e che stava ancora accadendo».
L’intervento del filosofo è ricchissimo di spunti, coinvolgente: la sua capacità dialettica riesce a coinvolgere tutta la sala. «Il pubblico che ho davanti rappresenta al meglio la giornata di oggi: una platea non così numerosa, perché ormai si sono moltiplicati, in questo giorno, i luoghi in cui perpetuare il ricordo. E vedete queste sedie vuote qua e là? Sono i buchi della memoria».
Un viaggio, quello che percorre Haim, tenendoci per mano, fatto di Ghematria, ricordi biblici, insegnamenti di vita e Rashì: «Al mio amico Elie Wiesel chiedo sempre ‘dove sbagliamo?’. Una domanda che mi rivolgo da ormai 30 anni. Ed è nel pensiero del nostro caro maestro medioevale che trovo la risposta». Commentava infatti che Dio si rivolse così a Mosè che si lamentava, “Mi sono mostrato ai patriarchi“, come a sottolineare la netta differenza tra la fede, facile, di Abramo, Isacco, Giacobbe, e la fede-fiducia che avrebbe dovuto avere Mosè; mentre i primi erano facilitati perché, a parte piccole disavventure, non venivano scossi nella loro fede, Mosè fronteggiava problematiche serie e tuttavia si lamentava con Dio, non capendo che, ormai, non era più il tempo dei patriarchi. La fede oggi si chiama Memoria, e c’è bisogno di entrare nella Storia, di prenderci responsabilità ed entrare nel quotidiano: «la Shoah non va spiegata a noi, qui, ma al popolo musulmano».
In ebraico, dice Baharier, nazismo si traduce con Amalek, popolo mitico ed esistente, e chiama in aiuto, ancora, la Ghematria: «L’energia numerica di Amalek è uguale a quella di una parola simile, che fa rima: safek. Il dubbio». E il punto è proprio questo: Amalek, il nazismo, nasce per scaturire il dubbio, da Amalek dovrebbe germogliare in noi la consapevolezza. E conclude con un grande insegnamento di Rabbi Feldman: a ogni domanda, egli rispondeva sempre: ‘non so, devo studiare’. Il suo continuo studio, il suo fuggire la certezza, non gli ha mai impedito di essere un uomo d’azione.