di Sofia Tranchina
Che gli ebrei abbiano vissuto nel territorio dell’odierna Ucraina per oltre un millennio, in alleanza con le popolazioni locali nella lotta per i diritti civili e l’emancipazione nazionale, è testimoniato già nel Patericon del Monastero delle Grotte di Kiev (raccolta di racconti didattici sulle imprese spirituali cristiane, i cui primi scritti risalgono al 1200). Dalla stretta convivenza e dalle continue interazioni, è nata e si è sviluppata nei secoli una radicata collaborazione artistica.
Fu proprio un ebreo di Kiev, il pittore impressionista Oleksandr Murashko (1875-1919), ad essere definito “il più importante artista ucraino di fine secolo (diciannovesimo)” (Semion Gurok e Boris Lobanovsky in Kiev, Architectural Landmarks and Art Museums: An Illustrated Guide). Patriota ucraino, Murashko aderì al movimento modernista del 1906 “Young Muse”, il quale incoraggiava ad attingere agli sviluppi altrove in Europa per rendere l’arte ucraina più progressista. Il suo dipinto Carousel vinse la medaglia d’oro all’Esposizione di Monaco nel 1909. Dopodiché espose a Venezia, Roma, Amsterdam, Berlino, Colonia e Düsseldorf, insegnò alla Scuola d’Arte di Kiev e aprì uno studio in cui formò persino l’artista suprematista Malevič.
Suo contemporaneo, Leonid Osipovič Pasternak, pittore postimpressionista di Odessa padre del famoso scrittore e poeta Boris Pasternak, illustrò le opere dell’amico Lev Tolstoj.
Di tutt’altro genere, la pittrice ucraina (naturalizzata francese) Sonia Terk Delaunay, ebrea di Odessa, sviluppò invece una pittura lirica- orfica con cui rappresentava la rifrazione della luce attraverso dinamiche modulazioni di colore.
Gli anni Venti: interessi comuni
Negli anni Venti, come scrisse Smolych, molti ebrei parlavano ormai l’ucraino come prima lingua: «venivano da villaggi ucraini, vivevano tra gli ucraini, e parlavano solo Yisddish e ucraino, mentre sapevano solo poche parole di russo». All’alba della Rivoluzione di Febbraio 1917, scrive Solomon Goldelman, «le circostanze avevano dettato che ucraini ed ebrei vivessero fianco a fianco».
Il collasso dello stato zarista aveva dato a entrambi l’opportunità di esplorare e sviluppare la propria unicità culturale. Al contempo, «il ritmo rapido delle trasformazioni rivoluzionarie richiedeva un immediato e radicale ripensamento di tutte le identità, compresa quella nazionale- culturale», scrive il professore di Studi di Slavistica Myroslav Shkandr nei suoi saggi Jews in the Artistic and Cultural Life of Ukraine in the 1920s e National Modernism in Post-Revolutionary Society: Ukrainian Renaissance and Jewish Revival, 1917–30. Ucraini ed ebrei divennero di fatto alleati culturali: l’intellighenzia ucraina individuava nello sviluppo culturale ebraico un alleato nella derussificazione dell’Ucraina post zarista e persino un’occasione per la creazione di un’identità culturale ucraina.
La Rada Centrale del nuovo governo ucraino approvò una politica multiculturale che offriva supporto particolare alle minoranze, e fu così che nel 1918 venne fondata a Kiev l’organizzazione culturale ebraico-ucraina più importante: la Kultur-Lige. Supportata da una coalizione dei partiti socialisti ebraici (Bund, Fareinigte, Poale Zion e Folkspartei), la Kultur-Lige sviluppava l’idea di una cultura Yiddish secolare che fosse internazionale e moderna. La sezione artistica dell’organizzazione era volta a promuovere uno stile ebraico che fondesse la nuova arte astratta con l’arte etnografica e folcloristica, e con il senso nazionale della forma, e unisse così, come scrisse Kazovsky, «le tradizioni artistiche ebraiche con i successi dell’avanguardia ucraina».
Boris Aronson, tuttavia, criticava l’idea di un’arte focalizzata su temi ebraici troppo riconoscibili, e vi opponeva un’esplorazione delle qualità formali dello spirito nazionale, quali l’uso del colore e del ritmo, e i pattern ornamentali tradizionali. Secondo Aronson (Arte Grafica Ebraica Contemporanea, 1924) l’arte ebraica poteva sì essere distillata dall’insieme di oggetti che venivano utilizzati nei rituali religiosi della vita quotidiana, ma non doveva rappresentarne una copia o stilizzazione, bensì una nuova individualizzazione, quale era praticata da Nathan Isaevich Altman – artista ebreo nato a Vinnytsia che offrì un’interpretazione cubista di scene ebraiche e sabbatiche – e da Chagall.
Venne elaborato così il concetto di un’arte ebraica basata su un immaginario archetipico, dalle forme, ornamenti e qualità compositive ebraiche. D’altronde Aronson si era formato nello studio di Kiev di Alexandra Exter, imparando da lei a fondere cubofuturismo, costruttivismo, e primitivismo folk in modi innovativi, sull’onda della trasformazione modernista della tradizione. Le teorie di Aronson trovarono massima espressione nelle composizioni cubiste di Mark Epstein (il Violinista del 1920, il Gruppo Familiare del 1920), di Yosyf Chaikov (La Sarta del 1922, Il Soyfer del 1922, il Violinista del 1922), e del cubista Issachar Ber Rybak. Quest’ultimo, nato a Yelisavetgrad (oggi chiamata Kropyvnytskyi) e formatosi nella scuola d’arte di Kiev, sviluppava nelle forme decorative un’interpretazione grafica moderna di quanto aveva osservato sulle mura delle sinagoghe. Collaborando con El Lissitsky e Sara Shor rappresentò in famose illustrazioni un’avanguardia grafica ispirata dall’arte folcloristica ebraica, per commemorare gli shtelt ucraini e bielorussi.
Non era raro che gli artisti della Kultur-Lige intrecciassero le tradizioni dello shtetl, riscoperto come topos distintivo nell’arte, con sistemi estetici avanguardistici quali cubismo, futurismo e suprematismo.
Non son tutte rose
Già negli anni successivi all’assassinio dello zar Alessandro II Romanov del 1881 ebbero luogo eventi di stampo antisemita anche violenti, tali per cui, ad esempio, l’espressionista Jacob Kramer, autore di diversi quadri che esprimono la spiritualità ebraica in uno stile tipicamente russo, scelse di lasciare l’Ucraina per la più inclusiva Inghilterra.
Tuttavia, il collasso della Repubblica Popolare Ucraina inasprì ulteriormente le relazioni e fu seguìto nel 1919 da una terribile ondata di pogrom, coi quali sostanzialmente si distrusse ogni possibilità di riavvicinamento ucraino-ebraico. Diversi artisti furono così costretti a scappare altrove per salvarsi, tra i quali lo stesso Issachar Ber Rybak di cui sopra, il quale fuggì nel 1921 a seguito dell’uccisione del proprio padre in un pogrom, e che ritrasse gli eventi antisemiti in due quadri intitolati appunto Pogrom e Piccola città dopo il Pogrom.
Anche Joseph Zaritsky, nato a Borispol, formatosi anch’egli all’accademia delle arti a Kiev, a seguito del pogrom del 1919 scappò con la famiglia a Bessarabia, lasciandosi alle spalle tutti i quadri dipinti fino a quel momento. Nelle varie tappe del suo esilio, scelse quindi di dipingere solo piccoli quadretti ad acquarello, ma anche di questi ne sopravvivono solo cinque, che ritraggono in scuri puntini la moglie e due paesaggi, sotto una decisa influenza del modernismo russo. Arrivato in terra d’Israele nel 1923, ovvero ben prima della fondazione dello Stato ebraico, si stabilì a Gerusalemme. La vita gli si fece più lieta e i suoi acquarelli iniziarono ad includere colori più chiari. Abbracciando sempre più l’espressionismo, iniziò a dipingere con linee astratte. Si trasferì poi a Tel Aviv, dove fondò con altri 17 artisti ebrei un nuovo gruppo dal nome Nuovi Orizzonti, che esibì le proprie opere al Museo d’Arte di Tel Aviv nel 1948. Nel catalogo della mostra, Zaritsky enfatizza il ruolo dell’arte nel costruire la giovane nazione ebraica in termini modernisti: «chiediamo un’arte che esista in prossimità del popolo. […] E siamo disposti a spiegare al pubblico la via e le forme di questa nuova arte per inculcare in questo i nuovi valori di verità. Così potremo sviluppare l’arte della verità nella nostra giovane nazione».
L’irriducibile fascino della madrepatria ucraina
Ma nonostante le asperità, molti artisti ebrei, anche dopo la diaspora, rimasero legati da un profondo quanto conturbato affetto per la terra ucraina lasciata alle spalle. Ne è un esempio l’artista Michael Matusevitch. Nato a Odessa nel 1929, andò in vacanza in campagna con i nonni nel 1941, ma, siccome a due settimane dalla sua partenza scoppiò la guerra, gli fu impedito di tornare a casa dai genitori. Affrontò dunque anni duri: dovette scappare dai nazisti, prima a piedi e poi in treno, ferito a una gamba, spesso esposto a bombardamenti, attraversando città in fiamme e soffrendo la fame. Tornato a Odessa nel 1945, fece domanda per la scuola d’arte ucraina Grekov, alla quale entrò a 19 anni nonostante le restrizioni (non ufficiali) riguardo l’ammissione di ebrei. Tuttavia, reclutato dall’armata rossa, dovette quasi subito lasciare gli studi. Quattro anni dopo ritornò a Odessa, dove ai pittori fu imposto di dipingere alla maniera del realismo socialista: l’arte è del popolo, si predica; dunque, l’artista è un servo del popolo, e l’arte moderna fu vietata in quanto troppo borghese e per questo inaccettabile.
Nel 1974 il pittore arrivò finalmente in Israele, dove si innamorò subito dei paesaggi brulli, coi quali sentiva un’intima affinità. Pochi anni dopo aprì infine la sua galleria a Tel Aviv e visse appieno il proprio sogno di artista. Non smise però di amare e rappresentare la madrepatria, della quale scrisse: «è sempre stato importante per me dipingere ciò che si avvicinava alla mia visione. Vivevo in una grande città sovietica e venivo da una famiglia ebraica: il mio punto di vista era chiaramente ebraico. Vedevo la vita straripante nelle strade ebraiche, e questo mi aiutava a ritrarre l’atmosfera speciale di Odessa. Ero stato criticato per aver dipinto Odessa come un villaggio e non come una moderna città sovietica, ma era la Odessa che amavo, e la cui atmosfera così unica stava gradualmente scomparendo».
Anche Ilya Schor, nato a Złoczów nel 1904 in una famiglia chassidica, quando si trasferì a New York iniziò a coltivare un’arte che tenesse vivo il ricordo della vita degli ebrei negli shtetl dell’Europa dell’Est. Memore della propria infanzia, produsse dipinti, bassorilievi, sculture, gioielli e soprattutto magistrali intagli su legno ispirati al folclore chassidico, commissionatigli da sinagoghe statunitensi, a riguardo dei quali Rabbi Heschel scrisse: «nella quiete delle immagini preziose che Ilya Schor porta in vita, le generazioni a venire sentiranno la voce e lo spirito dell’eterno Israele, e la introspettività e pietà del nostro popolo nell’Europa dell’Est».