di Ilaria Ester Ramazzotti
Continua in Israele la linea di mistero che avvolge la storia del ritrovamento di alcune strane maschere di pietra, sculture di visi che alcuni studiosi fanno risalire al periodo neolitico preceramico. Icone forti e dure, apparentemente antichissime, forse usate in riti funerari o legati al culto degli antenati, ne sono state rinvenute sedici, in tempi diversi. L’ultima solo alcuni mesi fa nel sud del deserto della Giudea, da una squadra addetta alla prevenzione di furti e trafugamenti di reperti antichi. Lo ha reso noto l’Autorità israeliana per le antichità (IAA) e ne parlano la stampa israeliana e il National Geographic online.
La notizia ha tuttavia suscitato e rinnovato dubbi e perplessità sulla loro autenticità. Il nocciolo del mistero sboccia dal fatto che quasi tutte le maschere neolitiche rinvenute sono conservate da collezionisti privati e hanno origini incerte, perché la loro provenienza archeologica non è documentata scientificamente. Finora, comunica la IAA, soltanto due maschere sono ben collocabili dal punto di vista archeologico.
La sedicesima maschera ha molto in comune con le altre già rinvenute: dimensioni, fattura in pietra calcarea, fori sui due lati e cavità che delineano gli occhi e la bocca. Sembrerebbe provenire da un sito archeologico della Cisgiordania meridionale, vicino a Pnei Hever. Le prime analisi sono state di recente presentate all’annuale riunione della Israel Prehistoric Society da Ronit Lupu e Omry Barzilai, due funzionari della IAA.
“Realizzate in una fase della storia dell’umanità quando, in questa zona, le popolazioni iniziavano a creare comunità stanziali – spiega Barzilai -, queste maschere sono di grande importanza scientifica. La transizione da un’economia di cacciatori e raccoglitori a una dedita all’agricoltura e all’allevamento fu accompagnata da un cambio nella struttura sociale e da una rapida impennata nel numero di attività religiose rituali”, aggiunge in un comunicato stampa. Barzilai ritiene che la nuova maschera provenga effettivamente dal sito archeologico indicato, poiché la persona che l’ha scoperta ha consentito alla squadra investiva antifurto di individuarlo.
È d’accordo Alan Simmons, professore di antropologia alla University of Nevada: “Quando la popolazione aumenta e convive in uno stesso luogo, c’è bisogno di maggiore controllo sociale. È per questo che iniziano ad apparire rituali di comportamento maggiormente codificati”.
Altri archeologi sostengono invece che identificare un sito archeologico di ritrovamento non sia sufficiente, soprattutto senza certezza sul metodo. “Individuare il sito di provenienza della maschera non dà indicazioni su come venisse usata”, dice Yorke Rowan, professore di archeologia alla University of Chicago. E la circostanza per cui solo uno dei sedici manufatti sia stato recuperato da una équipe scientifica solleva il dubbio che gli altri potrebbero essere falsi, aggiunge Morag Kersel, docente di antropologia alla DePaul University.
I sostenitori della loro autenticità sottolineano invece i risultati di un’analisi effettuata nel 2014 sull’antichità della patina superficiale di una dozzina di maschere, fra cui dieci di cui non si conosce l’origine, appartenenti a collezioni private. Tuttavia, secondo altri studiosi, la patina superficiale sarebbe a sua volta falsificabile. “Non sapremo mai se una maschera sia falsa o da dove provenga realmente, a meno che non sia stata rinvenuta con metodi scientifici”, conclude Kersel.
Spazio ai dubbi e alla cautela, quindi. Intanto le maschere, fredde e calcaree, restano enigmatiche, mostrando tratti lineari e schietti, a volte inquietanti e uno strano sorriso venuto da spazi e tempi incerti. O forse no, forse non tutte. False o vere, almeno alcune, magari lo sono davvero. Ma tutte appaiono misteriose e arcane fin nella loro stessa esistenza, protagoniste e al contempo portatrici del loro enigma.