di Fiona Diwan
“Ancora oggi, trovo gente che mi ferma dicendomi: Ma lei non è per caso parente del dottor Wolf?, quello che veniva a casa a curare i nostri genitori? Quando me lo chiedono mi commuovo ancora e capisco quanto mio padre facesse parte di questo mondo ebraico milanese, sia pure in modo contraddittorio, conflittuale. Era un ebreo di Varsavia, un medico mosso da ideali umanistici, polacco, anti-tradizionalista. Mojzesz Aron Wolf detto Mietek, per anni curò la gente della comunità di Milano, fino al 1990. Il mio ebraismo è un percorso identitario e simbolico reso complesso dal fatto che mio padre non mi fece crescere dentro la tradizione, e questo malgrado mia madre fosse una Ledner, un’ebrea triestina”. A parlare così è Silvio Wolf, 59 anni, artista milanese di fama internazionale che inaugurerà in autunno, al PAC di Milano, una mostra-evento (7 ottobre-6 novembre 2011), curata da Giorgio Verzotti, dal titolo Sulla soglia. Opere realizzate utilizzando il mezzo fotografico, perché “la fotografia è scrittura, trasfigurazione della luce che si fa segno, è luce che si fa immagine”, dice Wolf. Visiting professor alla School of Visual Arts di New York, docente all’Istituto Europeo di Design di Milano, Wolf ha esposto nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo nonché alla penultima, 53a Biennale Arte di Venezia.
Una mostra, questa del PAC, che tuttavia non è un’antologica e nemmeno una retrospettiva ma una personale: ovvero opere nuove create apposta per essere ospitate nello spazio che fu progettato dal grande architetto Ignazio Gardella, e affiancate da altri, pochi, lavori provenienti da collezioni private, in modo da fornire un quadro esauriente della sua storia d’artista. Per il prossimo 6 ottobre, -giorno dell’inaugurazione che cade nel periodo tra Rosh haShanà e Kippur-, Silvio Wolf ha ideato una performance speciale tutta centrata sul suono dello Shofar. “Era da tempo che pensavo a quel suono vibrante, primordiale, trascendente, un suono che ti trafigge e da cui non ti puoi proteggere, un suono che dischiude i cuori e chiama al risveglio le nostre menti intorpidite. Usando le parole di Maimonide, ho sempre pensato al suono dello Shofar come qualcosa capace di trasformare l’essere umano: un suono «che chiama i cuori smarriti, le anime traviate e sul punto di perdersi, o che non si accorgono del pericolo. Ecco che cosa ci dice lo Shofar, svegliatevi o dormienti!», scriveva Maimonide”. La performance che si chiamerà Le vie del cuore, -e a cui tutta la Comunità di Milano è invitata alle ore 13.00 e alle 20.00 del 6 ottobre e alle 22.00 dell’8 ottobre-, vedrà due attori sulla scena che sulle note del corno d’ariete disegneranno, col corpo e con dei passi di danza, le prime 10 lettere dell’alfabeto ebraico.
“L’idea della mostra del PAC è quella di ricostruire un viaggio con delle stazioni per raccontare i punti nodali del mio percorso artistico e di 30 anni di lavoro”, spiega Wolf che ha progettato per il PAC un percorso che ponga il visitatore al centro di un’esperienza visiva e sensoriale. Il concetto attorno a cui ruota la mostra è quello di soglia -caro al mondo qabbalistico-, dove tutto è due e mai uno. Perché la soglia è anche un luogo fisico, è un confine, è connessione e divisione, segna un fuori da un dentro, unisce e separa, è il vuoto che definisce il pieno, è il bianco che è complementare del nero. La soglia non è forse reciprocità? Il linguaggio capace di cogliere meglio la soglia e di catturare la luce che la definisce, è quello della fotografia. Non a caso una delle opere più suggestive di Silvio Wolf, esposte al Pac, si chiama Light Wave, onda di luce: un’immagine fotografica che è una vera piramide luminosa, un bagliore di luce sorgiva, un tunnel-passaggio tra un mondo e l’altro. Porte, confini, soglie, passaggi: Wolf ci racconta dell’importanza degli interstizi, degli spazi bianchi tra una parola e l’altra della Torà, spazi bianchi così importanti da richiamare addirittura la presenza di D-o, che si dà nell’assenza.
Astratto e immateriale
L’elemento ebraico è forte e potente nel lavoro di Wolf, in alcune opere palese, in altre più sottile. Come ad esempio nell’immagine di un altorilievo, foto di una lapide del cimitero ebraico di Ferrara, due mani aperte che simulano la Birkat Kohanim. O ancora nei quattro lavori sul tema delle porte e sui luoghi di passaggio, come l’immagine -un negativo fotografico-, di un’architettura di Mario Botta, in val Maggia, Ticino. Squarci di luce definiti da pertugi, punti di fuga, porte; giochi di superfici attraverso cui si aprono varchi di pura luminosità. Ecco: è intorno alla luce -colta nel suo aspetto più squisitamente astratto e puro-, che da sempre ruota il lavoro di Wolf. Nicchie e pertugi trafitti da raggi, per meglio cogliere il vuoto, l’assenza, l’alterità del divino, l’En Sof, il Senza Fine della Qabbalah. “L’umano è la linea di confine del divino”, dice Wolf citando una celebre frase di un autore a lui caro Abraham Joshua Heschel. “La fotografia è luce che si fa immagine, utilizza la luce come forma di scrittura, per generare visioni della realtà estremamente verosimili. Ma a me interessa perché in verità consente di catturare un vuoto, di vedere ciò che manca, ciò che è assente, perché mi indichi la via della pura immaginazione. Nel mio lavoro aleggia una dimensione mistica che non ha una matrice razionale né programmatica ma nasce come forma di affinità tra la fotografia intesa come scrittura di luce e l’interpretazione del reale. Si tratta di una percezione del mondo con un atteggiamento di tipo spirituale. Il mio lavoro ha qualcosa di fortemente immateriale, è aniconico e astratto, trascende sempre la rappresentazione dell’oggetto. E credo che tutto ciò sia davvero molto ebraico. Come diceva Michelangelo Antonioni, sappiamo che sotto l’immagine rivelata c’è un’altra immagine più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai…”. Eppure, sia nel mondo ebraico che in quello dell’arte, Silvio Wolf si è sempre considerato un battitore libero, lontano da gruppi di appartenenza o movimenti. Non a caso, pur utilizzando lo strumento fotografico, Wolf si è rivolto da subito al mondo dell’arte e non a quello della fotografia per accogliere il proprio lavoro. Il suo prepotente riavvicinamento all’ebraismo e la ricerca delle radici sono passati attraverso la frequentazione del tempio Beth Shlomo, dalle lezioni di Haim Baharier, dall’incontro con il gruppo di Lev Chadash e dell’ebraismo riformato. “Come diceva Chaim Potok, i Dieci Comandamenti vietano il culto delle immagini, non la produzione delle immagini; e compito dell’artista parimenti al compito di un Rebbe, è vedere, guardare”, dice Wolf. Nella serie di lavori intitolati Orizzonti, esposti al PAC in ottobre, Wolf sperimenta le infinite variazioni possibili di questo tema: l’orizzonte diventa una candida vibrazione boreale da cui scaturisce il colore, così come dal buio del caos primordiale sgorga la luce della creazione. Presente nella mostra milanese ci sarà anche la serie delle Icone di luce, laddove l’elemento luminoso non è più solo il mezzo ma anche il soggetto dell’opera, come ad esempio nel dittico del bonzo e dello studente asiatico che si danno fuoco per protesta, sulla pubblica piazza, diventando dolorose torce umane. E rivelando così quella che per Silvio Wolf è anche la funzione morale dell’arte, una forma di Teshuvà dell’anima, di risposta e di ritorno al grande mistero di cui siamo fatti e in cui siamo immersi.