di Fiona Diwan
Chi non conoscesse Madame d’Ora nella Vienna glamour e cosmopolita del primo Novecento era considerato un campagnolo. Tutta la città amava darsi appuntamento da lei, al numero 26 della Wipplingerstrasse. Nella scintillante capitale di Sigmund Freud e Gustav Mahler, all’ombra del Prater e dei caffè letterari, è nell’atelier di Dora Kallmus che sfilavano – come andassero a un ballo dell’intelligenza -, asburgiche teste coronate e ballerine del varietà, pensatori e arciduchesse, musicisti e pittori, attrici e modelle, da Colette a Gustav Klimt a Mahler, da Karl Kraus ad Alban Berg a Maurice Chevalier, ivi compresi il corpo felino di Josephine Baker, l’algida bellezza di Tamara de Lempicka, l’intensità decadente dell’etoile Anna Pavlova… A guardarli oggi, a più di un secolo di distanza, i ritratti di Dora Kallmus, passata alla storia con lo pseudonimo di Madame d’Ora, restano indimenticabili: una pagina di storia nei manuali di fotografia ma anche i testimoni di quella Finis Austriae che fu tra le stagioni culturalmente più eccitanti d’Europa, tra gli inizi del Novecento e gli anni Venti, dalla Secessione viennese al Cavaliere Azzurro, dall’Espressionismo ai romanzi di Stefan Zweig e Robert Musil. A ritrarre quella temperie storica arriva oggi fino a noi non solo il genio fotografico di Dora Kallmus ma anche il talento di una generazione irripetibile di fotografe – alcune delle quali autentiche artiste-, tutte signorine appartenenti alla buona borghesia liberale ebraica che, per formazione scientifica ed educazione artistica, furono in grado di cogliere per prime le potenzialità espressive del mezzo fotografico. L’avvento del nazismo avrebbe spazzato via quella scuola, costringendo molte di loro alla fuga o alla deportazione. Come non sorprendersi allora se la stessa mano di Dora Kallmus, -una star della fotografia di moda fino al 1938, 90 mila scatti tra ritratti, abiti, moda-, avrebbe poi finito per catturare immagini di morte e vanitas, fotografando clochard e derelitti, carcasse di animali uccisi nel mattatoio di Parigi, sfollati dei campi profughi, come una Diane Arbus ante litteram? La conversione al cattolicesimo e il rifugio in un convento francese avrebbero certo salvato la Kallmus dalla furia nazista, ma non sarebbero serviti a risparmiarle il dolore di essere sopravvissuta alla madre, al fratello e al cognato, periti nei lager nazisti. La storia di Dora Kallmus è a suo modo esemplare, figura-paradigma di un destino che fu quello di un’intera generazione di fotografe, eccezionale per numerosità e bravura, le prime della storia così consapevoli del proprio talento espressivo, capaci con i loro atelier di vivere e avere successo col proprio lavoro, in un lasso di tempo che va dalla fine dell’Ottocento al 1938, anno dell’Anschluss e della grande fuga degli ebrei dall’Austria (nel 1910 gli ebrei costituivano l’8 per cento della popolazione viennese; il 46 per cento delle allieve delle scuole elementari e medie femminili della città erano ebree). I loro nomi oggi ci dicono poco. Ma basta dare un occhiata alle loro immagini, quelle di Edith Glogau, di Trude Fleischmann, di Pepa Feldscharek, di Edith Barakovitch, di Maria Austria, di Dora Horowitz e moltissime altre, per restare impressionati dalla modernità e dalla forza dei loro ritratti, dalla fotografia di moda a quella di paesaggio, sociale o di reportage. Una mostra, Vienna’s Shooting girl, arriva oggi a rendere giustizia alla loro arte e alla loro memoria, al Judisches Museum di Vienna, fino a marzo, più di un centinaio di immagini che sono lo specchio di tre epoche attraversate dal fulgore delle Avanguardie storiche, dalla Bell’Epoque alle Anneès Folles agli anni Trenta. È curioso notare come moltissime di loro avessero una formazione culturale ricca e sfaccettata, insolita a quei tempi per una donna, e avessero goduto di un accesso libero agli studi superiori, cosa che ovviamente favorì la loro emancipazione. Quasi tutte, a causa dell’ostinato e atavico pregiudizio antisemita austriaco, finirono per convertirsi, -al cattolicesimo o al protestantesimo-, cosa che non evitò loro l’esilio o la deportazione nei campi.
Se la Kallmus fu indubbiamente il modello di riferimento -in quanto fotografa e businesswoman-, di tutta una generazione nata agli inizi del XX secolo, a determinare un netto balzo evolutivo in fatto di gusto furono due sue allieve, Trude Fleischmann e Edith Glogau, entrambe prese a bordo dai nuovi periodici nonché artefici di una differente estetica del ritratto: come ad esempio quello leggendario, preso dall’alto, dello scrittore Stefan Zweig o quello sghembo di Oskar Kokoschka, di Trude Fleischmann. Tagli obliqui, asimmetrici e anticonvenzionali; l’esplorazione della fotografia di nudo come forma di liberazione dalle convenzioni e di consapevolezza delle proprie potenzialità tecniche; i close up sui volti e una ricerca scultorea dei tratti del viso: tutto ciò fa della Fleischmann forse la più grande figura della fotografia austriaca del suo tempo. I suoi scatti seppero interpretare alla perfezione i cambiamenti post Grande Guerra nonché l’immagine che le donne avevano di se stesse nel 1920-30, quella voglia di sperimentare sensualmente e in modo assertivo tutte le nuove possibilità di un Io liberato. Una nuova immagine femminile fatta di glamour e naturalezza, eleganza e gioia seduttiva; espressione di un’identità sfaccettata che seppe portare una ventata di freschezza e modernità nell’esangue e frivola Europa aristocratico-borghese di allora.