Le melodie del dolore: quando la musica ti salva o ti uccide

Arte

di Sonia Schoonejans e Andrea Finzi

Orchestrine, bande, quartetti…: per divertire gli ufficiali o per coprire il rumore degli eccidi. Al Memorial de la Shoah di Parigi una mostra sull’uso perverso e distorto della musica

 

Una delle più iconiche fotografie della Shoah immortala un’orchestrina di detenuti in divisa a strisce che accompagna al patibolo un condannato a morte a Mauthausen nel 1942. Non si tratta purtroppo di un’istantanea eccezionale: oltre ad essere utilizzata per appagare la perversa fantasia dei boia, la musica era una presenza costante nell’infernale universo dei Lager, scandendo le giornate dei prigionieri e dei loro aguzzini, il lavoro, la vita e la morte, i rari momenti di riposo.
Scrisse Primo Levi in Se questo è un uomo: “Le marce e le canzoni popolari…. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente”.


La grande mostra La Musique dans les Camps Nazis, in corso al Mémorial de la Shoah di Parigi fino al 24 febbraio 2024, espone una vastissima documentazione visiva e sonora (fotografie, locandine, fogli d’ordine della burocrazia tedesca, filmati, registrazioni vocali e musicali) che fa comprendere l’importanza di questo aspetto solo in apparenza minore dell’organizzazione dei campi, già presente fin dal 1933 in quelli aperti in Germania per i detenuti politici, ove si costituirono le prime Lagerkapellen: orchestre composte da prigionieri, come quelle che apparvero più tardi in decine e decine di campi in tutta Europa. La musica, diffusa dalla radio e dagli altoparlanti, suonata da orchestre popolari e da bande militari, è stata utilizzata fin dalla presa del potere da parte del partito nazionalsocialista come strumento essenziale per la costruzione del consenso al regime, per realizzare la Volksgemeinschaft (comunità di popolo), secondo il principio di Josef Goebbels della Kraft durch Freude (Forza attraverso la gioia) con il quale si sarebbe attuato il dominio della razza superiore sul resto del mondo. Nel cupo contesto dei campi la martellante colonna sonora ebbe scopi coerenti con questa logica: inquadrare la massa dei prigionieri occupando di continuo la loro mente ed annullandone la personalità, scandire ogni momento della giornata, dalla chiamata all’appello, alla partenza in ranghi serrati per i luoghi di lavoro forzato, al rientro al campo, alle ispezioni dei gerarchi delle SS, alle (poche) festività, alle punizioni collettive e individuali.

L’orchestra del Lager era composta da prigionieri, musicisti dilettanti o professionisti, spesso giunti al campo con i loro strumenti, che venivano arruolati dopo una breve audizione già al momento della selezione iniziale. Per dotare l’orchestra degli strumenti musicali mancanti, l’apposito ufficio del comando ricorreva ai magazzini degli oggetti confiscati, all’acquisto presso rivenditori esterni, a spese dei deportati, talvolta alla produzione da parte di artigiani detenuti, come nel caso famoso del contrabbasso di Mauthausen, o addirittura facendo scrivere dai musicisti a parenti o amici perché inviassero al campo il loro strumento.

 

Si formarono così orchestre sinfoniche di buon livello, discretamente numerose e relativamente stabili nella loro composizione grazie a qualche privilegio concesso ai musicisti: soprattutto se il comandante del campo amava la musica, la “sua orchestra” era un motivo di orgoglio, soprattutto quando poteva esibirla durante le visite di Himmler o di altri gerarchi, oppure se poteva metterla in competizione con quelle di altri Lager. Il comandante di Buchenwald, Karl Otto Koch, melomane oltre che sadico, fece comporre un inno che doveva essere cantato alla perfezione dopo ore ed ore di prove. Alcune orchestre furono perfino dotate di uniformi, talvolta fantasiose, come quella descritta da Bernard Aldebert in Il campo di sterminio di Gusen II. Mauthausen: via Crucis in 50 stazioni: “Abbiamo visto e ascoltato questa fanfara i cui musicisti portavano dei vestiti bordati d’oro, ricordo fastoso di un circo defunto. Dopo di ciò, ci siamo decisi a non sorprenderci più di nulla”.

 

Oltretutto, un ensemble di orchestrali ben affiatati e dall’aspetto apparentemente sano serviva ad ingannare gli eventuali osservatori esterni, come nel caso delle visite-farsa della Croce Rossa al campo “modello” di Terezin nel 1943-44.
Mentre nei primi anni i musicisti furono trattati alla stregua dei detenuti comuni, a partire dal 1942 venne loro concesso un trattamento migliore e furono esentati dal lavoro forzato. Ciò avvenne perché, con l’aumento dello sforzo bellico e la necessità di massimizzare la produzione, l’utilizzo dell’orchestra nel ritmare l‘attività del campo ne fece uno strumento organizzativo fondamentale e pertanto i suoi componenti potevano occuparsi interamente di musica avendo tempo da dedicare alle prove e ad ampliare il repertorio; per questo motivo, molti musicisti ebrei sfuggirono, almeno provvisoriamente, alle camere a gas e alle marce della morte.

Si suonava all’aperto nei grandi spazi comuni come l’Appelplatz, alla porta del campo, sulle rampe di arrivo dei convogli ferroviari per aumentare il senso di spaesamento dei deportati buttati giù dai treni per la selezione, nelle “strade” fra i blocchi dei dormitori alla domenica, unico giorno di riposo, nei boschi e sui terrapieni ove gli ottoni risuonavano per coprire il crepitio delle scariche di fucile negli stermini di massa, prima dell’avvento delle camere a gas.
Gli spazi interni ove si faceva musica erano di vario tipo: dalle grandi costruzioni adibite a luoghi di riunione e teatro, ove si tenevano concerti e rappresentazioni di operetta, con accesso a pagamento per i detenuti, ai dormitori ove si suonavano e cantavano arie tradizionali, canzoni alla moda e – di nascosto – anche politiche, alle caserme delle SS ove l’orchestra dei detenuti era spesso chiamata ad esibirsi in serate cui partecipavano la banda del reggimento e gruppi musicali formati dai soldati e ufficiali che non disdegnavano neppure di ascoltare e suonare il jazz, considerato “arte degenerata”.

L’“offerta musicale” del Lager era ampia: dalle canzoni più in voga in Germania negli Anni ’30-‘40, alla musica classica con preferenza per Wagner e Beethoven, all’inno del partito nazista, ai canti delle SS, alle marce militari, soprattutto quella di Radetzky di Johann Strauss, dal folklore alle operette. La scelta del “palinsesto” quotidiano mirava all’annullamento di qualsiasi momento di silenzio, di pausa, di pensiero, di ogni gesto che non fosse inquadrato e piegato allo sfruttamento del detenuto-schiavo, trattato come oggetto da utilizzare fino all’estremo, da sacrificare e sostituire con un altro di durata ugualmente effimera. Musica come forma di tortura? Sì. Non ci si illuda: non di piacevolezza o svago si trattava, ma di qualcosa di perverso e malato. Il culmine dell’uso distorto della musica veniva raggiunto nell’accompagnamento delle punizioni collettive e delle condanne a morte, eseguite alla sera sull’Appelplatz, quando l’umiliazione e le sofferenze inflitte alle vittime erano rese ancor più insopportabili dalla scelta di brani di musica leggera, estratti di operette di Franz Lehar, canzoni sentimentali e allusive a volte tratte da film di successo.


Tuttavia, al di fuori delle ore del suo utilizzo come parte della macchina dello sterminio, la musica suonata e ascoltata fu un essenziale strumento di resilienza che aiutò migliaia di deportati a non lasciarsi andare e a resistere. Nelle camerate, negli spazi fra i blocchi dei Lager, perfino nelle latrine, si suonava e si cantava sommessamente: motivi popolari di tutte le nazionalità, canti religiosi yiddish o sefarditi, cattolici e ortodossi, politici come l’Internazionale, storpiature delle canzoni in voga per prendersi gioco degli aguzzini e del loro Fuhrer. Anche sotto questo profilo, la mostra del Mémorial de la Shoah fornisce un prezioso strumento per comprendere la complessità della macchina dello sterminio, un valido antidoto contro gli stereotipi che portano alla banalizzazione e al depotenziamento della memoria.