di Sonia Schoonejans e Andrea Finzi
Chagall, Soutine, Marcoussis, ma anche molti altri nomi meno celebri: sono solo alcuni dei tormentati artisti ebrei che nel primo ventennio del Novecento lasciarono l’Europa orientale in fuga dall’antisemitismo, per trasferirsi nella capitale francese, simbolo di modernità. Alla ricerca della libertà espressiva e personale
Al MahJ (Musée d’Art et d’Histoire du Judaisme) di Parigi è in corso fino al 31 ottobre Chagall, Modigliani, Soutine…Paris pour Ėcole 1905-1940, una mostra emozionante e documentatissima sull’attività artistica e sulle storie personali della più numerosa e straordinaria presenza di pittori ebrei in una sola città nella storia del ‘900.
“Eravamo una banda di scolari dello Heder, già distaccati dagli studi talmudici da una intera generazione ma abbeverati al fermento dell’analisi. E noi che abbiamo appena preso in mano la matita ed il pennello, ci siamo subito dedicati a ‘dissezionare’ non solo la natura attorno a noi, ma anche noi stessi…. Che posto occupiamo nel concerto delle nazioni? Qual è la nostra cultura? E quale dovrebbe essere la nostra arte? Tutto questo ha avuto inizio in qualche borgata della Lituania, della Bielorussia, dell’Ucraina: e di là, via verso Parigi”.
Ecco ciò che scrive il pittore e architetto russo El Lissitsky (Eliazar Lissitsky) nel 1923 nei suoi Souvenirs. E in effetti, fra le centinaia di pittori, scultori, poeti di tutte le nazionalità sbarcati a Parigi all’inizio del XX secolo, numerosi erano gli artisti ebrei venuti dagli imperi russo, germanico e austro-ungarico, tutti desiderosi di affrancarsi dalle costrizioni della vita ebraica tradizionale e al tempo stesso di fuggire dalle limitazioni imposte agli ebrei nei loro Paesi d’origine come, ad esempio, nella Russia imperiale, di risiedere nelle grandi città senza permesso di soggiorno e il numero ridotto di ebrei consentito nelle università e nelle accademie.
A Parigi, invece, nell’esplosione di energie e nuove forme di espressione che vi regnava, essi potevano confrontarsi con la modernità e trovare la propria via per realizzarsi. Sono questi artisti che l’esposizione del MahJ fa rivivere attraverso più di 130 opere e documenti, molti dei quali inediti, prestati da numerosi musei (principalmente dalla Francia e da Israele) o da collezioni private.
Arrivati per la maggior parte fra il 1900 ed il 1914, poi raggiunti da altri negli Anni ’20, questi artisti parteciparono attivamente al clima intellettuale e artistico parigino fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando l’Occupazione e la deportazione posero fine a questa straordinaria fioritura di talenti. Alcuni di essi diventeranno celebri, altri restano da scoprire. Il territorio artistico da essi occupato è immenso. Vi si ritrovano pittori così differenti fra loro come Sonia Delaunay (Sara Elievna Stern), Jules Pascin (Julius Mordechai Pincas), Louis Marcoussis (Ludwig Kazimierz Markus), Alfred Reth (Alfred Roth) o ancora Chaim Soutine. Avranno tutti frequentato il fauvismo, il cubismo, l’espressionismo e l’astrattismo prima di trovare e sviluppare uno stile personale, ma sempre condividendo, oltre ad una cultura comune, lo stesso ideale di libertà, una ricerca di autenticità e spesso un quotidiano miserabile ma effervescente.
Si ritrovavano nei caffè di Montparnasse (le Dôme, la Rotonde, la Coupole) divenuti luoghi di scambio quanto di convivialità. Erano circondati da mercanti d’arte, come Daniel Kahnweiler, da galleristi come Alfred Flechtheim e da collezionisti come Albert C. Barnes, che li sostenevano e li facevano conoscere.
Si crearono dei luoghi di vita comune come La Ruche, un edificio realizzato da Gustave Eiffel ove gli artisti disponevano di un atelier per un prezzo modico. Marc Chagall (Moyshe Shagal), arrivato a Parigi per la prima volta nel 1910, vi si era installato dall’anno successivo, allo stesso momento degli scultori Ossip Zadkine e Léon Indelbaum, presto raggiunti da Chaim Soutine, Pinkus Cémègne e Michel Kikoine. Apparvero giornali e riviste una delle quali, concepita alla Ruche, s’intitolava Makhmadim (delizie, piaceri in ebraico) ed era interamente dedicata all’arte plastica ebraica.
Chagall scriverà nei suoi Souvenirs (1923): “I miei quadri in Russia erano senza luce. Laggiù tutto è oscuro, bruno, grigio. In Francia sono stato colpito dal luccichio del colore, dal gioco delle luci e vi ho trovato quel che cercavo: questo raffinamento della materia e del colore folle”.
In questo mondo spesso impregnato d’immaginario ashkenazita ove lo yiddish costituiva ancora la lingua di riferimento, Amedeo Modigliani, uscito da una famiglia sefardita di Livorno, costituiva un’eccezione ma frequentò lo stesso gruppo fin dal suo arrivo a Parigi nel 1906 e si devono a lui i ritratti di Jacques Lipchitz (Chaim Jacob Lipchitz), Chana Orloff, Moise Kisling e di altri.
Nell’agosto del 1914, quando fu dichiarata la mobilitazione generale, alcuni artisti stranieri riguadagnarono i Paesi d’origine mentre altri restarono in Francia e si arruolarono come volontari stranieri. Marcoussis terminerà la guerra con il grado di tenente. Quanto a Zadkine, sarà barelliere di un’ambulanza russa. In tutto, 8.500 ebrei di origine russa, dell’Impero Ottomano o del Maghreb si misero al servizio dell’esercito francese, testimonianza toccante di attaccamento ai valori della loro patria d’adozione. Un certo numero di essi ottenne in seguito la nazionalità francese.
Negli anni che seguirono la guerra, una nuova ondata di emigrati dall’Europa Orientale portò nuova linfa alla vita culturale ebraica di Parigi. Le riviste si moltiplicarono, sia in yiddish sia in francese. Gli artisti ebrei occuparono sempre più spazio nelle esposizioni importanti, soprattutto al Salone degli Indipendenti le cui recensioni ne aumentavano la fama. Soutine, Kiesling, Pascin o Lipchitz conobbero un successo folgorante. Nel frattempo, alcuni editorialisti iniziarono a sottolineare velenosamente la presenza elevata di stranieri alle manifestazioni artistiche parigine. Il giornale Le Mercure de France pubblicò un articolo dal titolo “Esiste una pittura ebraica?”, un concentrato di tutti i luoghi comuni antisemiti (numero dei Lévy nei saloni…). La polemica si infiammò. In risposta a questa xenofobia e a questo antisemitismo spudorato, un critico d’arte, André Warnod, prese le difese degli artisti stranieri arrivati a Parigi all’inizio del secolo e inventò per loro l’espressione Ecole de Paris. Nel 1925 scrisse: “Può essere considerato come indesiderabile l’artista per il quale Parigi è la Terra Promessa, la terra benedetta dei pittori e degli scultori?”.
Parallelamente alla montata di un antisemitismo sempre più aggressivo, si affermò una coscienza ebraica che coniugava preoccupazioni attuali ed eredità tradizionale, che andò a rinforzare un’intensa rete di pubblicazioni in yiddish e in francese come le riviste d’arte Khaliastra (La Banda) e Menorah o, ancora, Revue Juive diretta da Albert Cohen e pubblicata da Gallimard.
Nel 1940, la guerra e l’Occupazione determinarono la fine dell’Ecole de Paris. Tutto precipitò nel dramma.
Il 4 ottobre 1940 la legge sui “fuoriusciti stranieri di razza ebraica” che completò lo “Statuto degli Ebrei” organizzò l’internamento in “campi speciali” o l’assegnazione alla “residenza forzata”, obbligando gli artisti a fuggire oppure a nascondersi. Se alcuni artisti ed intellettuali come Chagall, Kisling o Lipchitz riuscirono ad emigrare negli Stati Uniti grazie all’Emergency Rescue Committee, la maggior parte degli ebrei stranieri videro il loro sogno di una vita migliore a Parigi trasformarsi in un incubo. Moltissimi saranno deportati ed assassinati nei campi di sterminio.
Dopo la guerra, quando lo scrittore e giornalista Hersh Fenster tornò a Parigi sulle tracce dei suoi amici artisti ebrei e non potè far altro che constatarne la scomparsa, decise di farli rivivere in un libro per evitare che cadessero nell’oblio. Scritto in yiddish, con una prefazione di Chagall, l’opera fu pubblicata nel 1951 con il titolo Undzere farpaynikte Kinstler (I nostri artisti martiri). Racconta l’itinerario di 84 artisti vissuti a Parigi prima di perire nella Shoah, la maggior parte dei quali viveva nello “Shtetl di Montparnasse”.
Il MahJ rende omaggio a Fenstrer esponendo in una sala del museo i suoi archivi, le foto e i documenti di questi uomini e donne “eterni sognatori di bellezza che esprimevano sotto una forma artistica la loro natura interiore… loro, gli ambasciatori spirituali del nostro popolo…travolti dalla tempesta..”. Pubblicato a spese dell’autore con una tiratura di 375 esemplari, Undzere farpaynikte Kinstler era conosciuto solo da pochi iniziati.
Il MahJ ha appena pubblicato la sua traduzione integrale per le edizioni Hazan e il concorso della Maison de la culture yiddish- Bibliotheque Medem.