di Ilaria Myr
È un museo-star, un unicum nel suo genere per il concept di unità diffuse e asimmetriche con cui è stato concepito. Certo un’attrazione immancabile per chi visita Israele, un vero scrigno di opere d’arte di tutte le epoche e di tutto il mondo con cui dialoga in modo continuo e proficuo. Nato nel 1965 su idea di Marc Chagall, che lo considerava necessario per la costruzione di uno Stato democratico, e realizzato dal leggendario sindaco di Gerusalemme Teddy Kollek, il Museo di Israele è considerato uno dei musei top del mondo e senza dubbio il più incredibile del Medio Oriente.
La sua vasta collezione di oltre 500.000 oggetti spazia dai reperti archeologici all’arte contemporanea, israeliana e no: si va dal padiglione antichità, dove sono conservati pezzi unici appartenenti alle diverse civiltà che hanno attraversato questa Terra a quello di arte e cultura ebraica, con oggetti di comunità ebraiche stabilite in Africa, Oceania, Sud America e Oriente, e riproduzioni a grandezza naturale di sinagoghe provenienti da vari angoli del mondo, come Venezia, India e Suriname, a cui si aggiunge un documento originale di Einstein sulla teoria della relatività. C’è poi un modellino di Gerusalemme ai tempi del Secondo Tempio, che permette di immaginare com’era la città prima che fosse rasa al suolo dai Romani nel 66 d.C. E poi c’è il giardino delle sculture, più di sessanta opere di artisti israeliani e internazionali. Ma la parte più importante del Museo d’Israele è senza dubbio il Santuario del Libro (nella foto in alto), che ospita i Rotoli del Mar Morto, risalenti tra il 250 a.C. e il 66 d.C. Si tratta di circa un migliaio di manoscritti in ebraico e aramaico che furono ritrovati da alcuni pastori nel 1947 nelle grotte nei pressi del Mar Morto.
A dirigere questo mondo di cultura e bellezza è, da marzo 2022, Denis Weil: nato in Svizzera, proviene da una famiglia di sostenitori del Museo e creatori dell’Associazione svizzera di sostegno al museo. Lo abbiamo incontrato in occasione della cena di gala dell’associazione Amici Italiani dell’Israel Museum-AIMIG, tenutasi il 22 marzo a Palazzo Visconti (vedi box).
Innanzitutto, che cosa significa dirigere un Museo così importante come quello di Israele?
Il Museo di Israele è un’istituzione pubblica, anche se non è gestito dallo Stato. Ogni anno abbiamo circa 900.000 visitatori, metà sono turisti e metà israeliani. La nostra missione è di portare la cultura del mondo in Israele e quella israeliana e del popolo ebraico al mondo, in uno scambio continuo fra culture che deve includere tutte le culture che vivono in questo Paese. Il nostro focus deve quindi essere sull’esperienza che offriamo e per questo dobbiamo essere sempre più inclusivi. Al momento siamo sotto-rappresentati per il pubblico arabo e per quello ultra-ortodosso, ma la nostra missione è essere il museo di tutti. Quello che stiamo cercando di fare è dunque ridefinire la nostra identità.
Come avete affrontato il periodo di ripresa dalla pandemia? Quali le sfide più importanti?
Quando mi sono insediato la crisi pandemica era ormai quasi alla fine e la grande domanda per tutti era che cos’è il ‘new normal’, la nuova normalità. In particolare, per i musei riguardava il cambiamento di abitudini delle persone avvenuto durante la pandemia, ad esempio introducendo, come hanno fatto in molti, dei tour digitali. Dal canto nostro, abbiamo ripreso le visite regolari molto rapidamente, tornando agli orari pieni, e oggi siamo al 90% dei numeri pre-Covid, una media più alta del resto d’Europa, che è invece all’80%. Abbiamo anche riattivato le nostre mostre, con 10 nuove esposizioni nel 2022, che hanno avuto molto successo.
Sul fronte di gestione interna è stato un po’ più difficile: le persone si erano abituate a lavorare da casa, e quindi tornare a regime è stato un po’ faticoso. Inoltre avevamo molti posti vacanti, che solo oggi stiamo finendo di assegnare. L’anno scorso abbiamo anche organizzato, prendendoci qualche rischio, il nostro convegno internazionale: non eravamo sicuri che sarebbero venuti in molti, ma alla fine eravamo 120, ed è andata molto bene. Proprio quattro settimane fa abbiamo tolto il plexiglass dalle postazioni di informazioni e delle casse, quindi possiamo dire che nel museo non ci sono più tracce del Covid.
Come si è evoluto e si evolve il Museo con il mutamento dei tempi e della società?
Oggi i musei – e quello di Israele non fa eccezione – devono affrontare tre sfide importanti: essere più inclusivi, la trasformazione digitale e interrogarsi su che cosa sia l’arte oggi. La questione è dunque come dobbiamo evolverci, come utilizzare il digitale in un modo che migliori l’esperienza di visita, sempre però rispettando l’autenticità dell’offerta, e come assicurare l’aspetto culturale del nostro lavoro: l’arte infatti non è solo estetica, ma anche significato e apprendimento di culture nuove.
Il nostro, poi, è un campus di musei (richiamato nel logo, ndr), ognuno dei quali contiene una tipologia diversa di opere, da quelle più antiche a quelle contemporanee. Questo comporta vantaggi e svantaggi: da un lato c’è qualcosa di interessante per tutti, dall’altro però siamo troppi divisi in dipartimenti separati. Per questo stiamo attualmente lavorando su cinque temi chiave sui quali strutturare la nostra offerta, che pensiamo ci porteranno ad avere un pubblico più ampio. Partendo dall’antichità possiamo sviluppare delle mostre focalizzate sui pilastri della società. La prima, aperta dal 4 aprile al 31 dicembre 2023, si chiama ‘La festa’ che, partendo da 3000 anni prima dell’era volgare fino a oggi, vuole indagare come si sono evoluti nei millenni i banchetti e le feste. In questo modo portiamo le persone a capire il presente partendo dall’archeologia, in un nuovo modo di interpretarla. Anche il tema della sostenibilità può essere affrontato partendo dall’antichità, venendo a contatto con reperti delle civiltà che si sono estinte per disastri ambientali ed errori umani.
Avete al vostro interno pezzi antichissimi, primi fra tutti i Rotoli del Mar Morto. Quanto lavoro e studio richiede la conservazione di pezzi così antichi e importanti?
Molti dei reperti antichi sono in materiali resistenti, come metallo o roccia, che non subiscono l’impatto del tempo, mentre i tessili e quelli in carta ovviamente sono più delicati. Dei rotoli del Mar Morto, conservati nel padiglione ‘Il santuario del Libro’, si occupa uno speciale laboratorio, che ha il compito di mantenere l’umidità e la temperatura corrette. Inoltre, bisogna capire come evitare di danneggiarli irreparabilmente: ad esempio, quando il museo dei Rotoli è stato creato, nel 1964, erano stati esposti in verticale, ma con il tempo ci si è accorti che la gravità causava delle crepe, e per questo sono stati messi orizzontalmente. Molto delicata poi è la questione legata al trasporto in altri musei internazionali per le esposizioni: non abbiamo infatti ancora delle evidenze su quale impatto può avere il movimento nel trasporto aereo, e per questo aspettiamo di fare delle ricerche ad hoc.
Quanto il Museo di Israele contribuisce alla conoscenza del popolo ebraico e Israele? E quanto può contribuire a combattere stereotipi e pregiudizi?
Come ho detto, il nostro obiettivo principale è portare la cultura del mondo in Israele, e, dato il potere costruttivo che ha la cultura, il Museo di Israele può certamente contribuire a costruire e rafforzare la società. Allo stesso modo, vogliamo fare conoscere la cultura del popolo ebraico e per questo abbiamo una ricchissima sezione dedicata all’arte e alla vita ebraica, che di fatto è il più grande museo al mondo dedicato al mondo ebraico, sia dal punto di vista del materiale esposto che per superficie, ed è l’unico che copre tutta la cultura ebraica nel mondo degli ultimi 2000 anni.
A Purim, ad esempio, abbiamo aperto una nuova mostra dedicata ai sudari per i defunti: ne abbiamo alcuni di 2000 anni fa provenienti dalla zona del Mar Morto, altri dallo Yemen, altri ancora dagli Stati Uniti, Italia e Francia. È la prima mostra su questo tema mai fatta al mondo, che ha richiesto un grande lavoro di ricerca. Certo, l’argomento può sembrare deprimente ma abbiamo cercato di proporla come se fosse una mostra sulla moda, focalizzandoci sulle differenze fra i vari Paesi e anche sui diversi usi che, a seconda dei Paesi, se ne fanno nella vita ebraica.
Da ricordare poi è che dopo la seconda guerra mondiale abbiamo ricevuto dall’esercito americano molti oggetti ebraici salvati dai soldati: oggi che la questione della restituzione è molto di attualità, crediamo che sia importante che gli oggetti siano esposti in un unico luogo dove migliaia di persone possano vederli, e pensiamo che essi debbano essere nei Paesi dove vivono la maggior parte dei discendenti delle comunità a cui appartenevano, e cioè principalmente Israele e Stati Uniti. Ma ci sono ovviamente delle eccezioni di comunità che sono rinate. È quindi in corso un grande dibattito tra i musei ebraici su come trattare la questione, a cui stiamo partecipando con interesse. Si deve anche prendere in considerazione dove verranno conservati, se restituiti, e che valore avranno se spostati dal luogo in cui sono stati per 70 anni in un altro. Per quanto riguarda l’Italia, nella nostra collezione abbiamo due pezzi antichi che ci sono stati segnalati di recente dai carabinieri come beni saccheggiati: uno è stato restituito, l’altro è rimasto da noi per mancanza di spazio dei destinatari.
Il 22 di marzo si è tenuta la cena di gala degli Amici Italiani dell’Israel Museum (Aimig). Quale è il contributo dell’associazione al Museo?
Durante il bellissimo evento, tenutosi a Palazzo Visconti a Milano, abbiamo presentato l’opera donata al museo nell’ottobre dell’anno scorso da Emilio Isgrò, intitolata Cancellazione del decreto dell’Alhambra e coda imperiale, in cui l’artista siciliano affronta l’Inquisizione: fu infatti il decreto dell’Alhambra emanato il 31 marzo 1492 da Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona a sancire l’espulsione delle comunità ebraiche dai regni spagnoli e dai loro possedimenti. Durante la serata abbiamo anche ricordato Arturo Schwarz, grande esperto di arte e grande donatore del museo.
Il contributo delle organizzazioni amiche del Museo di Gerusalemme – 16 in tutto il mondo – è molto importante. Il museo è stato creato negli anni ‘50 da Teddy Kollek su idea di Marc Chagall con l’obiettivo di creare uno Stato democratico anche attraverso l’istituzione di un museo, focalizzato all’epoca su cultura e oggetti ebraici. Ma nella sua intenzione si doveva portare il Museo anche fuori da Israele, altrimenti sarebbe stato difficile creare un Paese democratico. Quello che siamo oggi è ancora basato su questo principio e per questo è molto importante per noi avere molti Paesi amici nel mondo. Le associazioni amiche, inoltre, ci aiutano a portare il nostro patrimonio all’estero (ad esempio la mostra di Chagall che è stata qui l’anno scorso). Ovviamente, sono anche importanti per la raccolta fondi, dato il 50% delle nostre entrate viene dalla filantropia. E poi, è divertente! Siamo una grande famiglia internazionale, in un continuo dialogo e scambio di culture e punti di vista.
Quali progetti ha per il futuro?
Continueremo a sviluppare esposizioni tematiche, utili soprattutto per l’arte contemporanea. Ora, ad esempio, è in corso un’esposizione sul concetto di ‘Selvaggio’ di opere realizzate da artisti di punta.
Per quanto riguarda il digitale, stiamo attualmente realizzando dei teaser video per invogliare le persone a venire, in partnership con il centro culturale Beit Avi Chay: sul loro canale Youtube in occasione di ogni festa ebraica pubblichiamo un video di 3 minuti, utilizzando materiali del museo.
Siamo poi molto attivi sull’educazione, con progetti a cui partecipano 10.000 bambini ogni anno. Ma il nostro obiettivo è raggiungere di più le periferie: per fare ciò abbiamo avviato dei programmi di apprendimento per i responsabili di alcuni centri comunitari periferici che possano veicolare i nostri contenuti sul loro territorio.
Il suo sogno nel cassetto?
Vorrei aprire una nuova galleria sul Medio oriente in cui includere opere palestinesi. In giugno apriremo una mostra chiamata ‘Design’ in arabo, in cui metteremo in mostra le opere di cinque artisti arabi israeliani dei primi anni ’30, principalmente tessili e gioielli, da cui emergono due temi principali: ribellione, nei confronti delle norme ristrette della loro società, e resistenza, nei confronti della maggioranza ebraico-israeliana. Dobbiamo tornare a essere un luogo in cui tutti si sentono benvenuti, per essere davvero il museo di tutti.
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La cena di gala di Aimig
Il 22 di marzo a a Palazzo Visconti a Milano si è tenuta la cena di gala dell’Aimig. Durante la serata il presidente Aimig Davide Blei e il direttore del Museo Denis Weil hanno portato un aggiornamento sul Museo, che quest’anno compie 58 anni e i suoi obiettivi. ospite d’onore della Serata era l’artista Emilio Isgró, donatore di un’opera creata apposta per il Museo, che ha commemorato Arturo Schwarz, socio onorario di Aimig, al quale era stata dedicata la Cena di Gala del 2019, l’ultima prima della pandemia. Un discorso, quello di Isgró, tutto imperniato su aneddoti relativi alla loro relazione di Artista e Gallerista/Collezionista con godibili rievocazioni e commenti.
Il prof. Marcello Fidanzio ha poi aggiornato i presenti sullo stato delle ricerche che riguardano i Rotoli del Mar Morto e alcune novità sul Rotolo di Isaia. Il dr. Alessio Assonitis, Direttore dell’Archivio Mediceo, invece, ha annunciato una mostra che sarà inaugurata a Firenze dal 23 ottobre e intitolata “Il Ghetto che non c’è”: un racconto vibrante sulle ricerche nell’enorme e poderoso Archivio dal quale sono state estratte innumerevoli notizie sul grande Ghetto fiorentino del 1.500.
La serata è stata condita da un’asta benefica di opere d’arte donate da numerosi artisti – molti dei quali presenti alla cena – alla quale hanno partecipato appassionati, collezionisti e amanti del bello.