di Daniele Liberanome
Visitare Gerusalemme è diventato ancor più bello da un anno a questa parte, da quando è stato riaperto il Museo di Israele, completamente ristrutturato.
Ci sono voluti 100 milioni di dollari, tre anni di lavori, due studi di architettura, ma il risultato è davvero notevole. Non che prima il Museo fosse trascurabile, anzi. Il Tempio del Libro -dove sono conservati i rotoli del Mar Morto di duemila anni fa-, il giardino con le sculture di molti grandi maestri del Novecento (fra cui Moore e Lipchitz), lasciavano e tuttora lasciano a bocca aperta. Ma i padiglioni -intesi come spazi espositivi in sé e per sé-, con le loro pur splendide collezioni, non erano un granché: caos, spazio insufficiente, scarso collegamento, didattica carente, book shop inadeguato e altro ancora, diminuivano il piacere della visita. Ed è qui che il Museo ha deciso di intervenire, rivoluzionando un po’ tutto. Il percorso è stato reso più razionale con la costruzione di un corridoio che dall’ingresso porta ai vari padiglioni, che restano comunque raggiungibili sempre anche dall’esterno. Appena entrati nel corridoio, si nota da lontano un’opera dell’artista contemporaneo danese Olafur Eliasson; come di consueto, Eliasson utilizza la luce per trasmettere con efficacia messaggi nient’affatto superficiali. Ha occupato l’intera parete di fondo con una serie di pannelli tutti uguali, alti e stretti, ma dipinti ciascuno con un solo colore. Insieme formano lo spettro dei colori, mentre presi uno per uno, da soli, restano insignificanti; mentre se osservati da lontano sembrano un solo rettangolare arcobaleno, con tutti i suoi significati simbolici, visto da vicino si scopre che la figura non è unica, ma spezzettata in diverse parti. È il potere dell’unione dei diversi, verrebbe da dire.
Ma a metà del corridoio, prima di cogliere tutti i livelli dell’opera di Eliasson, il visitatore può anche abbandonare il percorso ed entrare nel nuovo padiglione di archeologia, dove troverà manufatti straordinari, scaturiti da una scatola del Tempo, ovvero dalla Preistoria agli Ottomani. Il Museo è stato quasi tutto ricostruito dalle fondamenta. Ora lo spazio è sufficiente per dare conto in modo esaustivo a ogni periodo storico, e per contemplare le opere da ciascuna prospettiva, illustrando anche lo sviluppo e le metamorfosi di Israele e di Gerusalemme fin dalle origini con l’aiuto di modellini, pannelli, supporti. Imperdibile è la sezione in cui sono stati ricostruiti due luoghi di culto, antichi di 1300 anni, uno cristiano e uno ebraico, con le differenze immediate che balzano all’occhio e che sollecitano la curiosità.
Usciti dal padiglione e superata l’opera di Eliasson, conviene addentrarsi nel padiglione di Vita e Arte ebraica. Merita tutta l’attenzione possibile. Il percorso più seguito prevede la visita alle sinagoghe ricostruite sul posto, inclusa quella settecentesca di Vittorio Veneto, ma anche l’altra settecentesca dal Suriname (Guyana Olandese), restaurata di recente, e poi una indiana e l’ultima tedesca. Tutto il padiglione spinge il visitatore verso una profonda ricognizione di sé e delle proprie radici. A maggior ragione per un ebreo italiano che troverà un numero importante di oggetti del passato. Varrebbe la pena studiarli uno ad uno come, ad esempio, l’Haggadà di Mantova del 1560, illustrata con disegni in stile michelangiolesco. È emblematico che il figlio “saggio” assomigli al personaggio Geremia nell’affresco della Cappella Sistina, simile al profeta che anticipa e vede la distruzione del Primo Tempio, a dimostrazione del periodo difficile che i nostri antenati stavano vivendo, pochi anni dopo l’editto con cui Paolo IV istituì i ghetti. I maratoneti dei musei, potranno ancora godersi il grande padiglione di Arte Occidentale e no, dalle maschere africane ai quadri impressionisti e moderni, dai manufatti dell’Oceania alle installazioni degli artisti israeliani, passando per la grande collezione di opere surrealiste donate da Arturo Schwarz, uno dei fiori all’occhiello dell’intera istituzione.
Con la riapertura del museo è arrivato, fra gli altri, un disegno di Alberto Giacometti (1901-1966) famoso per le sue sculture in bronzo di figure umane slanciatissime e magrissime, che si trovano in ogni angolo del mondo e spesso si somigliano. I suoi quadri e i suoi disegni non sono da meno. In quello presente al museo di Gerusalemme colpisce il calore, l’intimità con cui ritrae il fratello Diego al centro del proprio studio, ovvero del suo spazio creativo. Alla collezione è stata aggiunta anche una tela di Gustave Courbet (1819-1877), alfiere dell’arte realista francese, rivoluzionaria perché descriveva la realtà quotidiana per quella che era. Non cercava soggetti o eventi particolari -patrioti o battaglie, come i romantici di quegli anni-. Così va inteso anche il Jura Landscape with Shepherd and Donkey (Panorama dello Jura con pastore e asino), dipinto nella regione che Courbet amava, e in uno dei suoi anni migliori -il 1866- in cui produsse opere celeberrime oggi esposte al Musée d’Orsay e a Stoccolma. Non è finita qui. Noel e Harriette Levine, collezionisti e miliardari, hanno donato la loro importante collezione di fotografie, fra cui non poche datate più di un secolo fa, che colma una delle lacune del Museo. Le opere di veri pionieri come David Octavius Hill (1802-1870) o Robert Adamson (1821-1848) sono scatti fondamentali per seguire l’evoluzione di questo mezzo espressivo che a inizi Ottocento era davvero agli esordi, con i fotografi che sapevano essere sia veri artisti sia scienziati-inventori.
Il tour delle novità del Museo non è affatto terminato, perché il giardino delle sculture all’esterno si è notevolmente ampliato e arricchito. Conviene soffermarsi sulla nuova opera di Anish Kapoor, artista ebreo indiano che aveva studiato in Israele per poi trasferirsi a Londra, da dove ha raggiunto un successo internazionale. Il suo Il mondo sottosopra è una struttura riflettente in acciaio inossidabile in cui il panorama viene capovolto (la terra in alto e viceversa), opera esistente in una innumerevole quantità di versioni oggi esposte anche altrove, tutte simili e insieme molto diverse.
Viviamo in un tempo in cui diamo al mondo immateriale, alla sfera spirituale, un valore minimo, minore di quello che attibuiamo alla materialità, sembra dirci Kapoor. Ma l’opera, posta proprio qui in questo museo, ha mille altre valenze e rimandi: la Gerusalemme celeste e quella ideale, e ovviamente ancora la Gerusalemme terrena e in carne e ossa, che tuttavia qui ha un enorme valore spirituale: questo è il luogo in cui ci si sentiva e ci si sente vicini al Cielo, in cui il Cielo è sceso più volte sulla terra. Evidente è anche il riferimento agli angeli sulla scala del sogno di Giacobbe, che salivano e scendevano, scendevano e salivano, unendo terra e Cielo. Ecco perché forse la visita all’Israel Museum è diventata una tappa imprescindibile di qualsiasi viaggio in Israele. Per poter specchiarsi in quel cilindro concavo di Kapoor, che come una scala sovverte i codici, i linguaggi e le visioni, permettendoci di oscillare in quell’alterazione percettiva che spesso è un viatico per forme di conoscenza ulteriori.