Se l’arte è una foresta di simboli

Arte

di Fiona Diwan

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Una lastra in alluminio specchiante su cui è dipinta una fuga di alberi, terra, tronchi e fronde in fuga, tempestate di numeri e lettere dell’alfabeto ebraico. E poi: una rana in terracotta dipinta; una tartaruga in bronzo, entrambe ricoperte di segni numerici e alfabetici; i quadri di due galli che si baciano, becco contro becco, e quello dell’Albero della Vita che innalza fronde mistiche verso il cielo e radici aritmetiche verso il centro della terra, alla ricerca della trascendente immanenza di quel Verbo che tutto crea.

Viene facile parlare di Qabbalah e di misticismo chassidico quando si ha a che fare con le opere di Tobia Ravà, artista nato a Padova nel 1959 ma veneziano di adozione. Davanti alla sequenza di consonanti e alle infinite serie numeriche di Fibonacci, è facile scomodare la leggendaria e sempre affascinante teoria dello Tzim-tzum e il misticismo di Zfat e di Itzchak Luria. Di fatto, davanti a questa nuova produzione, Codici Trascendentali (in mostra a Milano nella sede della “Compagnie Financière Edmond de Rothschild”, Corso Venezia 36, 14 maggio-14 giugno 2013), Ravà si sposta di lato, scarta, evita la facile riduzione del mistico all’esoterico e vola verso territori culturali di maggior sincretismo, inchioda la rivisitazione neoplatonica degli universali alla lettura di elementi archetipici della cultura ebraica.

Una maturità artistica già emersa nella Biennale di Venezia del 2011, e che pur restando fedele ai temi consueti e ai valori espressivi di sempre, porta oggi Ravà verso esiti più arditi e fantasiosi. «Tobia Ravà condivide con gli artisti rinascimentali il senso neoplatonico di elevazione, quando per la prima volta la pittura ha proposto come fine ultimo la ricerca del “bello”, quale potente strumento di elevazione spirituale per accedere alla conoscenza del divino. Le sue opere ricordano la Venere nella Primavera di Botticelli, raffigurata come humanitas, simbolo dell’amore spirituale che spinge l’uomo verso la virtù e l’ascesi, andando oltre le kellipot, le scorze, ossia l’apparenza delle cose terrene. Attraverso la comprensione di ciò, l’uomo raggiunge una dimensione superiore», spiega la curatitrice Maria Luisa Trevisan nel testo del catalogo.

«… Tobia Ravà sviluppa un percorso simbolico a rebus costruito su piani di lettura diversi attraverso la ghematrià, criterio di permutazione delle lettere in numeri, secondo cui ogni successione alfabetica può considerarsi una somma aritmetica».

E così Ravà fa riferimento alla presenza di un invisibile legame tra le cose ed al pensiero sincronico della tradizione ebraica, secondo il quale quello che è successo in passato, attraverso la memoria, viene rivissuto da ciascun ebreo anche nel presente. Da qui l’importanza della storia e l’alto valore della memoria. Questo intreccio affascinante tra presente, passato e futuro, tra natura e cultura, viene non solo intuito da Ravà, ma anche visualizzato attraverso immagini fatte di forme, colori, lettere e numeri, che costituiscono quella foresta di simboli che si nasconde dietro la realtà.

Le sue opere bidimensionali sono costituite per lo più con un punto di vista centrale o laterale, apparentemente costruito sull’impianto prospettico rinascimentale, come nella serie dei boschetti, formati dai filari di pioppi ordinati con la stessa logica dei dipinti a soggetto architettonico; ma le lunghe prospettive invece di formare profondi coni visivi danno luogo ad una visone allargata, “ad imbuto”, con per un effetto da grandangolo.

Guardando i lavori di Tobia Ravà, difficile non pensare allo Zohar, secondo cui l’Ein Sof, l’infinito – o meglio, l’essenza del divino-, contemplava l’alfabeto ebraico considerandolo il progetto della Creazione. Ed è proprio il Libro dello splendore a sottolineare come già nell’incipit della Genesi sia contenuto il senso fondativo dell’alfabeto e della parola, il celeberrimo Alef-Tav, l’Alfa e l’Omega, contenuti nella prima frase Bereshit barà Elohim ET ha-shamaim ve ET ha-aretz. Tutto sta nella parolina ET, un rafforzativo, scritta in ebraico con le lettere alef e tav. «I qabbalisti dicono che l’Onnipotente creò tutto l’Universo con la parolina ET, che simboleggia tutto l’alfabeto ebraico. Per loro, le ventidue lettere dell’alfabeto sono le “particelle di D-o”, i mattoni della Creazione», spiega, nel catalogo, lo storico dell’arte e rabbino Roy Doliner.

ET vuol dire l’insieme o l’interezza di una persona, di una cosa, di un luogo. Conclude infine Roy Doliner: «Quando diciamo Io ti amo, in ebraico, la parolina et sta dicendo “Ti amo interamente; anche con tutti i tuoi difetti umani, i tuoi umori, le tue stranezze – ti amo incondizionatamente e completamente.” In ebraico, quel primo versetto dice: B’rescit, barà Elokim ET-ha-sciama’im ve-ET-ha-aretz – In principio, D-o creò interamente i cieli e tutta la terra. E’ una dichiarazione, a prescindere, di monoteismo (e d’amore)». E per Ravà fare arte, altro non vuol dire, alla fine, che riflettere sull’ordine simbolico del creato e sul grande mistero dell’atto creativo, divino o umano che sia.