di Fiona Diwan
Noi siamo l’anello di una catena proiettata nel tempo, siamo il Tempo che cammina su due gambe, scriveva il pensatore Abraham J. Heschel, parlando del popolo ebraico. Non a caso la Torà inizia con il concetto di tempo, Bereshit, In principio…. E anche il Talmud inizia con la parola Ne’eman, Da quando…, anche questa è un’espressione di tempo e non di spazio. Heschel sapeva che sopravvivere nei meandri di un tempo cinico e avverso è una delle tante investiture ebraiche. Ben lo sanno gli ebrei di Libia che ancora conservano vivido il ricordo dell’espulsione violenta avvenuta dopo la rivoluzione di Gheddafi, nel 1967, all’indomani della Guerra dei Sei Giorni. Il ricordo di tumulti e moarot, il distacco dal lungomare di Tripoli, sopravvivono ancora oggi, incapaci di elaborarsi fino in fondo, in forma di lutto, come se chi viene sradicato in modo traumatico dal luogo dove nasce non potesse mai strapparsi dagli occhi i paesaggi delle origini.
A raccontare la vicenda degli ebrei di Libia arriva oggi un mirabile docu-film firmato a quattro mani da Ruggero Gabbai e David Meghnagi, girato tra Roma, Milano, Israele, e che sarà proiettato in anteprima per la Comunità di Milano (Cinema Orfeo, 6 giugno 2017, ore 20.00; una seconda proiezione, in Comunità, sarà la settimana dopo), ospite d’onore della serata il Ministro delle Finanze israeliano, Moshe Kahlon anch’egli di origine libiche. Un anno di lavoro, circa 25 testimoni intervistati, il film realizzato da Ruggero Gabbai e David Meghnagi è stato prodotto da Forma International e finanziato da un pool di investitori privati (tra cui Walter Arbib, Daniel Buaron, Walker Meghnagi e altri, – ma il film è ancora in cerca di sponsor per chiusura budget-), e godrà di una distribuzione finanziata dall’UCEI.
«La storia degli ebrei di Libia ci è molto vicina, sia per motivi politici che di identità italiana e di vicinanza geografica. Inoltre, mi interessa raccontare l’ebraismo del Mediterraneo, penso che sia portatore di valori importanti da conoscere e approfondire. Sono decenni che lavoro sul tema della testimonianza e credo sia un modo efficace per rileggere la storia e le varie identità, un modo caldo e coinvolgente per raccontare il passato», spiega il regista Ruggero Gabbai. «Gli ebrei libici erano (e sono) molto… libici, autoctoni, con usanze millenarie, una identità meno diasporica e cosmopolita rispetto a quella degli altri ebrei sefarditi, più vicina a una cultura araba tipicamente nord-africana. Penso ai riti benaugurali e propiziatori della Henna o a quello della Psisa, ad esempio. Nonostante non si possa più tornare in Libia, abbiamo cercato, attraverso il montaggio e la sceneggiatura, di tradurre le parole in immagini e di dare un senso visivo alle voci delle testimonianze. Siamo riusciti invece ad andare in Israele, nel moshav vicino a Lod, costruito proprio dai tripolini scappati nel 1948-50, all’indomani della nascita dello Stato di Israele. Erano ebrei della Hara, il vecchio quartiere popolare ebraico, arrivarono in Israele privi di tutto e furono parcheggiati nelle tendopoli dei campi profughi. Non si lamentarono mai: quelle tende, proprio perché sorgevano in Eretz Israel, furono per loro un autentico Eldorado», aggiunge il regista.
Nel docu-film di Gabbai-Meghnagi si mescolano i destini paralleli dei cittadini italiani cresciuti in Libia intrecciati alle voci degli ebrei. Quella ebraica è stata, del resto, come in tutto il Medioriente e il Nord Africa, una presenza antica, cancellata per sempre, nel XX secolo, prima dal Fascismo e dalle Leggi Razziali e dopo, più avanti, dal panarabismo e dall’autodeterminazione degli stati nazionali arabi. Il film racconta, dalla viva voce di chi c’era, pogrom e fughe fortunose ma anche un patrimonio di tradizioni e una cultura giudeo-araba andati perduti.
Ma com’erano gli ebrei di Libia? «Ce n’erano di tanti tipi, specie a Tripoli. Quelli di autentica origine italiana; quelli con passaporto inglese o francese; il gruppo di origine iberica, che parlava il giudeo-spagnolo; e poi gli ebrei autoctoni, libici, stanziali da secoli sui lidi della Tripolitania. Insomma, una notevole varietà, cementata da un forte senso di unione e fratellanza», sottolinea Yoram Ortona, scappato da Tripoli a 14 anni, nel 1967, insieme al padre giornalista e direttore del Corriere di Tripoli. «Una città profumata, musicale, plurale. Dalle finestre sentivamo i canti dei muezzin, dei greci, dei cattolici, delle sinagoghe della Hara. A Tripoli, nel tempo libero, negli anni Sessanta, c’era chi frequentava il Maccabi, chi il Circolo Malta House, chi la Base Americana», racconta Victor Magiar autore del memoir E venne la notte, sulla sua infanzia in Libia. La famiglia Magiar gestiva un cinema dove si proiettavano in anteprima i film italiani, al fine di testare le reazioni del pubblico prima che le pellicole uscissero sul suolo patrio. «Si respirava un clima di amicizia, tutti gradivano il cus cus dello Shabbat, del venerdì sera: così, pentole cortesi viaggiavano da un pianerottolo all’altro, da un caseggiato all’altro, in un amichevole scambio di tegami; gli ebrei offrivano Hraimi, Mafrum e cus cus ai vicini cattolici o arabi musulmani», racconta Vito Halfon. «Tripoli era un’altra Yerushalaim, e noi ragazzini che vivevamo nella Hara giocavamo a calcio, arabi contro ebrei: se eravamo noi a vincere, gli arabi ci menavano per dispetto; se invece perdevamo, ci picchiavano lo stesso, per festeggiare la loro vittoria. Insomma, le prendevamo sempre», ricorda Amos Guetta.
Ma facciamo un po’ di storia. Anche qui, come in patria, nella colonia italiana di Libia, tutto precipita nel 1938, con le Leggi Razziali. È con la scelta dell’opzione filoaraba, nazionalista e antibritannica del regime fascista che il rapporto con gli ebrei vacilla e si rompe. Nel 1938, le Leggi Razziali vengono estese anche alle colonie d’oltremare e di colpo tutto cambia. Anche qui gli italiani ebrei si sentono traditi. A partire dagli anni Quaranta, prendono il via le deportazioni: i fascisti iniziano a sviluppare una politica di azione violenta contro gli ebrei di Bengasi, la cui Comunità viene rastrellata e deportata in un campo dove moriranno un quarto degli ebrei, a causa di malattie e denutrizione. Il resto della Comunità, rinchiusa nel campo, si salva per un soffio e solo grazie all’arrivo degli Alleati. Considerata più emancipata e occidentale rispetto a quella di Tripoli, la Comunità di Bengasi è duramente colpita dalla guerra. Alcuni ebrei libici, in possesso di un vecchio passaporto britannico, vengono arrestati in quanto inglesi – e quindi nemici-, deportati dai fascisti e avviati, dall’Africa, verso Bergen Belsen: il gruppo degli ebrei tripolini verrà rinchiuso nella baracca numero 6 del lager. Con l’inizio delle ostilità, i francesi e gli inglesi iniziano a bombardare Tripoli. «A volte, le bombe colpivano anche il quartiere ebraico, a volte solo la città. Noi correvamo a vedere ed esultavamo, sapevamo che quelle bombe, in fondo, stavano aiutando anche noi», ricordano i testimoni di allora. «Casa nostra divenne una base delle SS. C’erano cavi elettrici ovunque, era inquietante», racconta Walter Arbib, oggi cittadino canadese.
Al suono delle cornamuse, il 23 gennaio 1943, l’ottava armata del generale Montgomery entra a Tripoli. «Finita la guerra, tra il 1945 e il 1948 gli ebrei di Libia erano ormai consapevoli che si erano rotti tutti gli equilibri e che le riconciliazioni tra ebrei e maggioranza islamica erano fittizie. Così gli ebrei iniziano a sognare l’emigrazione e a organizzare gruppi di squadre di autodifesa. Arriveranno preparati all’appuntamento tragico del 1948, non più colti di sorpresa come era accaduto nel 1945, il pogrom più terribile. All’epoca, anche molte donne presero le armi e militavano nelle squadre di difesa. Furono soprattutto gli ebrei della Hara a combattere e, in seguito, a emigrare verso Eretz Israel con partenze clandestine a bordo di velieri che partendo dalle spiagge della Tripolitania finivano in Sicilia come prima tappa. Se nel 1945 i tumulti contro gli ebrei fecero molti morti (gli arabi entravano nelle case ammazzando chi gli si parava davanti), il pogrom del 1948 non li coglierà impreparati ma ben armati e in grado di combattere», spiega il co-autore della pellicola David Meghnagi. E conclude: «La Comunità libica presenta una specificità unica in tutto il nord Africa: era molto sionista e fu la sola, a differenza di quella egiziana, algerina, tunisina e del Marocco, a emigrare in massa verso Israele. Accadde tra il 1948-1951: l’intera Comunità era orientata alla rinascita di Israele. La stessa fuga fu trasfigurata in un esodo e mai vissuta come un vero esilio. A Tripoli, gli ebrei vivevano un’ambivalenza: da una parte la Comunità guardava a Occidente, specie le sue elite; dall’altra, era profondamente radicata nelle tradizioni e viveva il sionismo come elemento costitutivo della sua identità collettiva».
Non a caso gli ebrei di Tripoli, una volta in Eretz Israel, fonderanno nel 1949 il Moshav Achsamach, il cui nome significa “mio fratello che diventerà felice”. Dopo l’esodo in Israele del 1949-51, rimarranno in Libia 4-5 mila ebrei sui circa 35 mila ivi presenti prima di quella data.
Con il Dopoguerra e il re Idris, nel 1951, con il boom economico e il petrolio, arrivano anche prosperità e ricchezza. Dopo la violenza degli anni Quaranta, gli ebrei si adoperano per ricominciare una nuova vita e alcuni fonderanno compagnie petrolifere. Con la crisi di Suez, nel 1956, un altro pogrom abortisce, incidenti e scaramucce ma non un vero e proprio tumulto.
Sarà con la Guerra dei Sei Giorni che tutto precipita. Quell’evento fa da detonatore, da catalizzatore: in verità, il sentimento antiebraico cova da decenni, fin dai primi disordini di piazza (i tre pogrom sono del 1945, del 1948 e del 1967). Nel ‘67, l’aiuto del governo italiano è decisivo per la fuga degli ebrei. Tutto avviene in fretta e furia, la gente scappa abbandonando ogni cosa. La paura domina su tutto. «Ricordo che in volo, quando il pilota annunciò che stavamo entrando nello spazio aereo italiano, scoppiammo tutti a piangere, increduli », ricorda con emozione Victor Magiar. «Mentre volavamo, avevamo timore di non farcela, la paura della violenza subita era dentro di noi e non se ne andava», racconta Amos Guetta alla telecamera di Gabbai. La storia di Giulio Hassan è, tra quelle narrate nel docu-film, forse la più terribile, quattro anni rinchiuso nelle prigioni di Gheddafi, senza saper nulla della moglie Jasmine né della famiglia. «Un film nel film quello di Hassan, la vicenda di come si resiste in un carcere libico riuscendo a farsi rispettare in quanto ebreo e in quanto libico, come si riesce a dialogare con gli altri arabi prigionieri e con le guardie, senza abdicare a se stesso o farsi calpestare», commenta il regista Gabbai.
Ma in Libia non c’erano solo ebrei, c’erano anche cittadini italiani giunti qui sulla scorta dell’avventura coloniale e di relazioni commerciali. «Anche se eravamo nati su suolo africano, ci sentivamo fortemente italiani, ci emozionavamo per la bandiera, sentivamo la maestà della patria, guardavamo il mare e sapevamo che laggiù, oltre il blu, c’era la nostra Italia », racconta Anna Maria Cancellieri, ex Ministro dell’Interno, cresciuta in Libia. E aggiunge ancora, nel film: «Tripoli ci ha insegnato a vivere in una comunità multietnica e multiculturale, ci ha insegnato il senso della vita condivisa e del rispetto per l’altro». «Quando venne la Rivoluzione di Gheddafi, dal settembre 1969 al luglio 1970, capimmo che sarebbe finita presto, e che quello che era successo agli amici ebrei poco prima, nel 1967, sarebbe capitato anche a noi, italiani e cattolici. La Guerra dei Sei Giorni fu uno spartiacque, un punto di non ritorno, gli ebrei furono cacciati dall’oggi al domani. Il campanello d’allarme squillò anche per noi italiani, proprio a partire da quanto stava succedendo agli ebrei. Quei mesi furono orribili, ogni giorno c’erano provvedimenti vessatori. E una volta tornati in Italia fu per noi difficile capire dov’era la patria e qual era l’esilio», incalza Giovanna Ortu, Presidente dell’Associazione italiani di Libia. Ma se negli italiani il sentimento prevalente era quello della nostalgia, per gli ebrei fu molto diverso. «Personalmente, non ho mai provato vera nostalgia, non ho mai pensato di tornare laggiù, al contrario, ho portato Tripoli con me, l’ho messa in valigia, me la sono portata dietro», dichiara David Meghnagi.
«Noi ragazzini ebrei, frequentavamo di mattina le scuole italiane e nel pomeriggio la scuola ebraica. Le femmine andavano dalle suore», dice Manuela Buaron. Tripoli era una città splendida, il suo mare un incanto, racconta nel film David Zard, considerato l’Alain Delon della sua epoca, un talento già da allora quando si trattava di organizzare eventi musicali: allo Shooting Club di Tripoli riusciva addirittura ad allestire, il giorno dopo la premiazione, una Piccola Sanremo, con tanto di testi trascritti e l’ascolto registrato delle canzoni, il tutto grazie a un Geloso color caffè acceso durante la diretta tv del Festival (e ben prima dell’uscita dei dischi). «Tripoli era divisa in caste, c’erano le elite ebraiche borghesi di Corso Sicilia, e poi il popolo della Hara le kbira e della Hara le Zrira, con le loro case con patio interno, all’aperto, dove spesso vivevano più famiglie insieme, genitori e figli sposati, generi, nuore, nipotini; e infine c’era la Homa, un altro quartiere, con il suo mix di famiglie arabe ed ebraiche. «Noi abitanti della Hara eravamo tutti per uno, uno per tutti, cosa che non accadeva agli ebrei emancipati di corso Sicilia», sottolinea Amos Guetta che vi abitava. Popolosa e popolare con le sue numerose sinagoghe e le stradine affollate dall’alba, la Hara si riempiva di gente venuta per i commerci ma anche per pregare, per le Selichot mattutine, quando si avvicinava il tempo di Kippur.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, un profondo processo scuote la regione. Deflagra il conflitto tra potere coloniale e la nascita dei movimenti nazionalistici arabi. Tra l’incudine e il martello, gli ebrei ne fanno le spese e verranno stritolati, ritrovandosi nel punto di frizione della faglia e dei movimenti tellurici che ne scaturiscono. «Con il 1967, gli ebrei di Libra sono in trappola, la loro sorte è segnata. Il pogrom di quell’anno fu progettato, programmato a tavolino: le case vennero segnate col gesso, furono indicati i negozi da saccheggiare e preparata la mappa dell’attacco.
L’antisemitismo che allora si sviluppò nel mondo arabo non è legato al conflitto mediorientale e a Israele, come molti erroneamente pensano: quello fu solo il detonatore. Inizia molto prima. E inoltre, non dimentichiamoci che nel 1952, la Libia diviene membro della Lega Araba: da quel momento in poi la parola Israele diventa un tabù, impronunciabile. Dalla radio si proclamava la distruzione degli ebrei e del nuovo stato», spiega Meghnagi, nel film. Ma ci fu anche chi, come Gino Mantin, riuscì a salvare gli 80 sefarim delle sinagoghe di Tripoli, portandole in Italia o in Israele. «Come dimenticare quella mattina del 5 giugno 1967? Avevo 14 anni, mio padre era in bagno, si stava radendo la barba. Quell’ultimo pogrom fece 17 morti ebrei. Le case della Hara presero fuoco e gli ebrei che vivevano nei quartieri più esterni, affacciati ai balconi, iniziarono a piangere. La massa araba che si scagliò contro vecchi e giovani ebrei era immensa. Il cielo da azzurro divenne grigio antracite dal fumo, l’odore di bruciato impregnava l’aria ovunque», dice Yoram Ortona. Per giorni, gli ebrei vissero chiusi in casa, silenziosi come talpe, facendo finta di non esserci, non rispondendo a chi bussava alla porta. «Alcuni vicini ci portavano cibo, molti erano amici arabi. Alla fine, in qualche modo, arrivammo all’aeroporto di Castelbenito: inquisiti, denudati, usammo i gioielli come merce di scambio. C’erano pochi aerei e tantissima gente. Alcuni velivoli si svuotarono delle valigie per ospitare nel bagagliaio altri ebrei o italiani in fuga. Partimmo che eravamo cittadini di Libia; sbarcammo che eravamo diventati profughi, ma liberi».
Ruggero Gabbai, tra cinema e politica: documentari, film, fiction
Regista, fotografo, autore di numerosi film e documentari (Memoria, Il viaggio più lungo, Io ricordo…), politico nelle file del PD (ex Presidente della Commissione Expo, con la giunta Pisapia), Ruggero Gabbai, 53 anni, è un vulcano di idee e attività: ha appena partecipato al Festival del cinema di Taormina con il documentario CityZEN, sul quartiere Zen di Palermo, narrando con stile scabro e potente la realtà degradata di quel mondo. Alle prese con la fiction Bella, ancora in fase di sceneggiatura, racconterà la storia di una ragazzina in fuga dalla Guerra.
E infine, ha appena terminato il docu-film Sette ritratti ferraresi, promosso dal Meis e Comunità Ebraica di Ferrara, sette interviste sul tema dell’identità ebraica a ferraresi che raccontano il significato attribuito all’ebraismo e alle tradizioni, chi spiegando le ragioni di una scelta ebraica tardiva, chi soffermandosi sul legame controverso con gli scritti di Giorgio Bassani, chi intonando canti sacri e suonando lo shofar… Una carriera, quella di Gabbai, spesa tra racconti ebraici, sensibilità sociale, voglia di narrare le vite degli altri, la loro umanità, la gioia, il dolore, le peripezie.