di Fiona Diwan
«E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa?». Così si interrogava, in un celebre verso, il poeta lusitano Fernando Pessoa, che ben conosceva la tradizione ebraica per la quale in ciascun sogno c’è un sessantesimo di profezia e che ogni visione notturna vaga in una dimensione intermedia, tra cielo e terra, tra divino e umano, tra vivi e morti. Sogno come modo con cui l’Altissimo sceglie di parlarci, sogno come facoltà performativa, creativa, divina, dicono da secoli il pensiero e la mistica ebraica. Realtà psichica dilatata che è espansione della coscienza; contatto con la verità trascendente e con l’Io divino che giace in ciascuno di noi, frontiera e membrana in cui si nascondono premonizioni e verità inconfessabili, sogno come teatro del desiderio e del rimosso.
È con queste premesse e considerazioni che si è aperto il convegno dedicato a Sogno e Surreale nella Letteratura e nelle Arti ebraiche, tenuto all’Università Statale di Milano il 10-11 novembre scorsi e organizzato con la consueta cura da Maria Mayer Modena, docente e esperta di Letteratura ebraica e israeliana.
Per la concezione ebraica, la funzione del sogno sta nel mostrare all’uomo i suoi pensieri e desideri nascosti. «Ma ciò che importa è soprattutto il sogno profetico, quello che indica la strada e che costringe il profeta a interpretarne i simboli. Nella Genesi, i fratelli definiscono sarcasticamente Giuseppe Baal HaChalomot, il Signore dei sogni: certo Josef sogna in grande, fa sogni di dominio ma dimostra anche di saperli decodificare inserendoli in un progetto, come accade col sogno delle vacche magre e grasse di Faraone con cui Giuseppe scongiura la carestia in Egitto. Per la tradizione di Israele il sogno è un messaggio che viene da Dio e che passa per l’immaginazione, trasformandosi in immagini e simboli», spiega nel suo intervento il Rabbino capo di Milano, rav Alfonso Arbib. Anche le parole di Maria Modena Mayer, curatrice e organizzatrice del Convegno, puntano dritto alla tradizione biblica. «È proprio in sogno che Rebecca, nel racconto della Torà, capisce la natura del figlio Esaù. È in sogno che Miriam, sorella di Mosè, esercita la funzione profetica. Il sogno, nel Tanach, svolge anche un ruolo di ponte tra i vivi e i morti, tra giorno e notte e tra tutto ciò che dovrebbe essere mantenuto distinto e separato. Ma è in età chassidica che si farà grande ricorso ai sogni: la dimensione onirica assolverà qui alla funzione fondamentale di rivelare all’uomo il fondo della sua anima e i più intimi moti del cuore».
Prosegue la studiosa Francesca Gorgoni che mette al centro del suo paper il termine melachà, l’equivalente ebraico della parola greca techne o di quella araba sinà, tre termini che indicano la creatività, l’arte, la poesia e il legame tra natura e invenzione, tra tecnica e ingegno. «Per Aristotele, la techne è una disposizione razionale all’immaginazione; per l’islam sufi e per gli arabi, sinà è la creazione artistica che rimanda alla creazione divina e l’artigiano è paragonato a un profeta, riflesso della creazione divina. Nell’ebraismo medievale del XIII secolo invece, melachà non solo è ciò che non si può fare di shabbat, il divieto di ia’aseh melachà, fare ogni lavoro creativo, ma indica “arte, tecnica, azione creativa”», spiega Gorgoni.
E mentre il docente di letteratura anglo-americana Carlo Pagetti cita il genio dello scrittore polacco Bruno Schulz attraverso l’opera di Cynthia Ozick ne Il messia di Stoccolma, un’altra studiosa e talentuosa traduttrice, Anna Linda Callow, racconta la realtà dello shtetl nell’Ostjudentum, il villaggio ebraico dell’Europa dell’est, come fabbrica e miniera di situazioni surreali. «Le stesse raccontate da Sholem Aleichem, da Isaac B.Singer, da Chagall, dal film Train de vie, da Israel J. Singer in Un mondo che non c’è più, scritto nel 1940: questo testo in particolare ha un tono divertito e leggero, Singer è già in America, non sa cosa sta accadendo in Europa. Tutto conserva ancora, per lui, un profumo surreale e comico, a partire da suo padre che si rifiuta cocciutamente di imparare il russo, lingua richiesta per ottenere il riconoscimento statale di rabbino. Singer sa che è sempre una coppia di opposti messi a contatto a generare l’effetto surreale, sono il rovesciamento dei ruoli tra maschile e femminile, tra padre e madre, a scatenare l’effetto comico. Non a caso, tra i suoi genitori il ruolo normativo e razionale era ricoperto dalla madre, alta, spigolosa, ossuta, cerebrale, pratica, mentre il padre era piccolo, rotondo, roseo, uomo di cuore animato da una fede che sfiorava l’ingenuità: una coppia perfetta se solo lui fosse stato una donna e lei, un uomo. Scrive Israel J. Singer: “Imparavo succulente pagine di Ghemarà ma le inghiottivo di traverso. Mio padre me le insegnava. Era un eterno entusiasta, un fiducioso veggente che cercava infinite coincidenze per scoprire quando sarebbe venuto il Mashiach, mio padre che vedeva la Guerra russo-giapponese come il conflitto tra Gog e Magog, anticipatore dei tempi della redenzione”».
E che dire del sogno come dimensione dell’incontro dei vivi con i morti? Accade ad esempio nella poesia di Uri Zvi Grinberg, spiega la docente universitaria Sara Ferrari, nei versi de Le strade del fiume (Rehovot haNaar): «I sopravvissuti alla Shoah vivono circondati dalle ombre dei defunti, portano dentro il sigillo della morte e solo in sogno possono rivedere e parlare con coloro che hanno perduto laggiù, nei lager, anime e corpi periti in assenza di tombe. E ancora, poeti come Amir Ghilboa, Hava Nassimov, Rachel Farhi: quest’ultima nella poesia Bikur, riunisce tutti i suoi cari, morti a Bergen Belsen e Dachau, intorno al tavolo della sua cucina per bere un caffè», spiega Ferrari. E se la storica del teatro Mariangela Mazzochi Doglio si sofferma sulla straordinaria parabola creativa di Hanoch Levin (vedi articolo pagina 29), e sul tema dei migranti contenuto nel testo Il bambino sogna (HaIeled cholem), del 1993, c’è chi come la docente Gabriella Steindler Moscati pone sotto i riflettori l’arte del racconto breve dell’israeliano Etgar Keret. «Codici ironici e surreali. Personaggi spaesati e stralunati che danno a Tel Aviv una dimensione sognante; uno stile arguto, pungente, l’uso dello slang dei soldati, un intreccio favolistico in cui anche gli animali o le piante chiacchierano, pesci rossi parlanti e racconti in cui compare una donna che nasconde in bocca una chiusura lampo oltre la quale vi è nascosto il suo amante miniaturizzato… Il tutto contenuto nei libri Tubi, All’improvviso bussano alla mia porta o nel racconto Guava, storia della morte di un pacifista militante e della sua reincarnazione in un frutto esotico, la guava appunto. Così, con questa chiave, Keret si chiede se sia possibile sopravvivere alla scomparsa del sentimento eroico collettivo, se in Israele sia possibile vivere oggi, dopo la fine dei grandi ideali», fa notare Steindler Moscati.
La dimensione onirica nell’opera di Myriam Moscona (1955), scrittrice messicana contemporanea (sefardita, di orgine bulgara), è l’oggetto della riflessione di Alessia Cassani, dell’Università di Padova: il romanzo in esame è Tela de sevoya, in cui la protagonsita si mette in viaggio nei luoghi e nelle case della sua famiglia e della perduta lingua ladina. «In ogni casa c’è una casa nascosta, segreta e parallela, scrive Moscona. Un luogo che rimanda alle nostre origini e alla collettività dei nostri antenati. In questa casa nascosta si incontrano tutte le nostre generazioni passate, senza contiguità temporale o spaziale. Il romanzo si abbandona ad affascinanti scorribande, risale alla Spagna medievale, prima dell’editto di Granada, ai conversos, in una ricerca delle radici che attaversa secoli di storia europea. Così la casa nascosta e occulta cresce nella pancia di quella più grande e reale, allo stesso modo in cui le generazioni passate e le madri antenate vivono nascoste dentro di noi. Il procedere narrativo si serve dei sogni, di stadi remoti di coscienza in cui spazio e tempo sono annullati, sogno come espediente narrativo che rompe le dimensioni e confonde le coordinate», spiega Alessia Cassani.
Un convegno interdisciplinare e vario, dove non poteva mancare un bel momento musicale con il trio di violino, violoncello e voce (Lydia Cevidalli, Issei Watanabe e Caterina Trogu Roehrich), e un panel su cinema e sogno tenuto da Nicoletta Vallorani e Mino Chamla, con spezzoni di episodi di Angels in America di Tony Kushner e regia di Mike Nichols, 2003, di film come A serious man dei Fratelli Coen e di The Possession, di Ole Bornedal. Tutte pellicole in cui la dimensione onirica, la cifra surreale, non sono la forma bensì la sostanza di un’esperienza tragica o fondativa, di un’epifania della coscienza, un emergere di verità veicolate in forma di sogno. Sogno che spesso, per la tradizione ebraica, è portatore di valori profetici e quindi di illuminazione, di un clic improvviso e folgorante con cui ci rendiamo conto di ciò che dovremmo fare o di ciò che ci sta accadendo ma che finora non abbiamo compreso, spiega brillantemente Chamla. «La miniserie tv Angels in America è un’opera strana, barocca, molto politica, con un tema scandaloso per l’epoca, l’omosessualità. Siamo in piena epidemia di AIDS, negli Usa si diffonde il terrore. Così, la malattia diventa metafora di esilio, di esclusione, di diversità. E l’esilio è un viaggio di sola andata, non c’è più un luogo di ritorno; resta solo la terra di mezzo della colpa e della non-appartenenza, dice il protagonista Prior. Lo spazio simbolico è una ebraicità dissipata e una ricerca delle radici che parte da pogrom e shtetl per arrivare a Ellis Island», spiega Nicoletta Vallorani.
Dal cinema alla filosofia greca, al medioevo giudeo-italiano. La seconda giornata di lavori chiude il convegno con altre cinque interessanti conferenze: dal tema del sogno in Filone d’Alessandria all’autore Ezechiele Tragico (II° secolo prima dell’E.V.), agli incantesimi, esorcismi e sortilegi nel medioevo giudeo francese. «Filone d’Alessandria, che scrive in greco e vive ai tempi di Gesù, usa il metodo allegorico per interpretare i sogni di Giuseppe: la tesi di Filone è che i sogni hanno un significato, sono una sorta di limbo che va spiegato e rivestono una funzione etica», spiega il professore Giuseppe Lozza. «Sogno come ponte tra divino e umano, tra il mondo dei vivi e dei defunti; sogno come profezia, laddove il profeta è sempre un border line sociale. E su tutto, il rimando costante e onnipresente alla Torà e ai suoi contenuti narrativi e simbolici,Torà che si conferma il punto di riferimento primario», conclude Sara Ferrari, che tira le fila delle varie sessioni dell’evento.
Un convegno pieno spunti e di approcci eruditi e inconsueti, vario e polifocnico. Peccato forse per un solo grande assente: Bruno Schulz, il gigante della letteratura polacca del Novecento, genio incontrastato della dimensione surreale ebraica con i suoi sogni sulfurei e le sue visioni color cannella: quelle “botteghe dal colore delle brune boiseries… quei negozi così nobili, ancora aperti a notte inoltrata… sempre stati oggetti di fervidi sogni”.