di Michael Soncin
Dopo il grande successo del primo incontro dedicato all’antisemitismo del 5 maggio, Haim Baharier ha nuovamente incantato il pubblico 19 maggio al teatro Franco Parenti di Milano. Il filosofo ed ermeneuta ha iniziato parlando del palestinese Sayed Kashua, cittadino israeliano, definendolo un grande scrittore e un grande uomo, perché colpito profondamente dalla sua scelta di scrivere in ebraico e dalla frase “volevo essere ebreo”.
Baharier spiega che l’espiazione, concetto deformato molto dalla tradizione cristiana, è una modalità particolare di accettare una colpa e di ripartire dal famoso Tikkun (in ebraico – התיכון עולם Olam HaTikun – il mondo della correzione) degli autori cabalistici, la riparazione che non è il perdono e non riguarda la persona che ha sbagliato, ma quelli che riprenderanno il cammino riconoscendone i valori.
“Il popolo di Israel – racconta Baharier parafrasando la Torah – imita i popoli liberi (s’impadronisce della libertà di cui godono tutti i popoli) e si scuote da addosso, le catene di tutte le schiavitù, simbolicamente esce dall’Egitto.”
Parlando dell’incontro tra Amalek e Mosè spiega che è errato definire che Mosè alzava le braccia al cielo, residenza di Hashem, poiché le sue braccia erano tese, probabilmente in direzione, della terra del dono, con la funzione di indicare il progetto: un’altra cultura e modalità di vita, differente da quella egizia, che incarnava la padronanza. Ritiene difficile fare la differenza tra la memoria e la nostalgia (in riferimento all’uscita dall’Egitto), la prima consisterebbe nel riconoscere la funzione, il ruolo di quelle che oggi sono delle retroguardie, per poi riprendere un discorso nuovo, invece la nostalgia è lasciare lo status quo; non si tratta quindi di cancellare Amalek, è il ricordo che dev’essere cancellato, questa memoria nostalgica.
Chi è Amalek?
Haim Baharier ha continuato a chiedersi chi è Amalek, chi è questo primo popolo nazista?
“Il mio strumento è l’ermeneutica, – dichiara – non ne ho altri, e guardando la parola ne sentivo il peso, mi dicevo è troppo facile leggere in trasparenza Hitler, non funziona; in ebraico non vi sono i numeri né romani né arabi, ma le lettere sono anche dei numeri, quindi ogni parola ha il peso del valore numerico delle sue lettere.”
La parla Amalek pesa 240, ed è la somma delle sue lettere, e 240 non scrive solo la parola “Amalek”, ma anche la parola Mar (in ebraico – מר – amaro) che esprime il concetto di amarezza, la sua lettura rovesciata è Ram (in ebraico – רם – elevato), dunque Amalek, dall’analisi dello studioso, rappresenta questa difficile dialettica che esiste tra amarezza ed elevazione, la difficoltà che abbiamo nell’accogliere l’elevazione quando non è direttamente frutto di un nostro sforzo.
Questo è per la Torah l’inizio dell’antisemitismo, rappresentato nella battaglia che c’è tra elevazione e amarezza. Amalek rappresenta secondo Baharier la prima manifestazione antisemita a livello dei popoli.
Parlando sempre della Torah nel punto in cui si narra il percorso verso “La Terra del Dono”, Baharier si collega per puntualizzare che le spoglie moderne dell’antisemitismo sono quelle dell’antisionismo, sotto tutte le sue forme; definendolo un odio terribile, oggi largamente condiviso dalla destra alla sinistra.
L’odio di Israel sarebbe legittimo. Perché? Secondo il suo punto di vista, l’occidente, nella sua interezza, compreso il popolo di Israel non ha elaborato la Shoah, perché ha bisogno di interiorizzare ed elaborare la complicità di tutta l’Europa a un genocidio a tuttora impensato e impensabile; Israel è definita la terra del dono, perché la definizione di terra promessa rappresenta un mito cristiano, l’antisemitismo di oggi è per l’ennesima volta il sorgere di contradizioni.
“La mia presenza qui è dettata dalla paura, quello che ho potuto fare a Milano non avrei potuto farlo in nessuna parte dell’Europa ed in questo sono stato aiutato da moltissimi cristiani. Il problema è un altro, anche la Torah lo fa vedere, noi siamo partiti da un problema di fratelli per arrivare ad Amalek per capire che questa incomprensione cresce; affinché ci possa essere un dialogo tra l’occidente cristiano e l’occidente di Israel ognuno deve assumere la propria identità, il proprio percorso, un incontro ma senza un abuso d’identità”.
“Le mani di Mosè – puntualizza – erano tese verso il progetto di realizzazione della Terra del Dono, questo ha consentito al suo popolo di resistere ad Amalek e quando le sue mani s’indebolivano (cioè quando il progetto era meno chiaro), Amalek aveva la meglio”.
Parlando poi del regista israeliano Nadav Lapid, che vive in Francia, all’opposto del palestinese Kashua che dice che voleva essere ebreo, egli sceglie invece di non voler più parlare in ebraico, perché la trova una lingua povera e la preferisce al francese ricco di sinonimi. “È chiaro – afferma Baharier – che è la povertà della lingua di Israel che consente l’interpretazione, sono questi vuoti, queste assenze, questa difficoltà di dire il sofisticato che fanno l’estrema ricchezza di questa lingua”. “Come mi farebbe piacere far incontrare lo scrittore palestinese con il registra israeliano”, conclude il grande maestro.