di Cyril Aslanov *
Da Mosè a Ben Yehuda a Agnon. Da lingua vernacolare al métissage linguistico di oggi. Il sentimento ebraico di autodeterminazione non si sarebbe mai sviluppato senza l’esistenza di una lingua sacra laicizzata e modernizzata che fu il vero catalizzatore della rinascita.
Un cammino linguistico che non cessa di generare sorpresa e identità
Che cosa rappresentano i 70 anni dello Stato di Israele nella storia trimillenaria della lingua ebraica? Apparentemente poco, ma in effetti molto di più se si va al di là della pura statistica quantitativa e se si cerca di capire il ruolo simbolico della lingua come attributo della sovranità ebraica ripristinata nella patria storica. Il lettore italiano capirà meglio di altri che l’esistenza stessa dello Stato di Israele è dovuta in definitiva alla capacità di trasformare lo spazio virtuale di una lingua e di una letteratura in un territorio nazionale dotato degli attributi di uno Stato (1). Come il sentimento nazionale italiano e il Risorgimento nacquero dalla coscienza di usare la stessa lingua letteraria diventata poi la lingua ufficiale dell’Italia moderna, così il nazionalismo ebraico moderno e la sua espressione politica attraverso il sionismo, non si sarebbero mai sviluppati senza l’esistenza di una lingua sacra laicizzata e diventata strumento di espressione culturale moderna nell’ambito della Haskalah, l’Illuminismo ebraico.
In altre parole, quando nella prima metà dell’Ottocento inizia la modernizzazione della lingua ebraica in Europa centrale ed orientale, dove vivevano la maggioranza degli ebrei del mondo, si creò uno strumento potente per l’elaborazione di un sentimento nazionale non più necessariamente legato alla tradizione religiosa, ma comunque ispirato da certi contenuti presenti nel corpus dei testi riletti con un’ottica laicizzata e romanticizzata. In questo senso, il primo romanzo scritto nell’ebraico modernizzato della Haskalah, Ahavat Tsiyon (L’amore di Sion) che Abraham Mapu pubblicò a Vilna nel 1853, entusiasmò molti ebrei est-europei. Ciò fu determinante per la creazione, meno di trent’anni dopo la prima pubblicazione del romanzo, del gruppo protosionista degli Amanti di Sion (Hovevei Tsiyon) anche chiamato Hibat Tsiyon “amore di Sion”, un nome che non è nient’altro che una variazione sinonimica del titolo dell’opera di Mapu. Il successo di questo romanzo storico che descrive una storia d’amore a Sion al tempo di re Ezechia (715-687 prima dell’era volgare) e che diventò un equivalente dei Promessi sposi nell’orizzonte culturale degli ebrei dell’Europa orientale, fu così grande che il significato originale di Ahavat Tsiyon (L’amore di Sion), preso nel senso di “una storia d’amore svoltasi a Sion”, suscitò un autentico e reale “amore per Sion”. Il toponimo Sion venne preso come sineddoche di Gerusalemme e metonimia della sovranità ebraica sulla Giudea, abolita con la morte di re Agrippa nel 44 dell’era volgare. Sebbene molti lettori di Ahavat Tsiyon lessero il libro in traduzione (yiddish, tedesca, russa), non è da trascurare l’impatto che ebbe proprio l’originale ebraico nell’emergere di un sentimento nazionale ebraico moderno senza il quale lo Stato di Israele non sarebbe mai stato fondato. Si misura qui una causalità che porta dal rinnovamento della lingua ebraica alla capacità di scrivere un romanzo in questa lingua modernizzata, romanzo che, a sua volta, servì da catalizzatore per la nascita di un sentimento nazionale capace di esprimersi attraverso la fondazione dello Stato di cui celebriamo oggi il 70esimo anniversario.
Il legame fra i prodromi del sionismo e il rinnovamento della lingua ebraica si confermò con il tempo. Nel 1879 il giovane Eli‘ezer Ben Yehuda (nato Perlman, 1858-1922), pubblicò nel giornale ebraico viennese Ha-shahar un famoso articolo intitolato She’elah lohatah (Una questione bruciante), o She’elah nikhbadah (Una questione seria), dove affermava che, per essere effettivo, il movimento nazionale ebraico avrebbe dovuto appoggiarsi alla lingua ebraica rinnovata perché ogni movimento di emancipazione nazionale ha bisogno di una lingua che gli serva da codice identificativo. Si noti che all’inizio del suo percorso, Ben Yehuda vedeva nella lingua ebraica lo strumento e il mezzo della rinascita nazionale piuttosto che un fine a sé.
Paradossalmente, questo ruolo importante dell’ebraico nei circoli protosionisti non venne riconosciuto dal fondatore del sionismo politico, Theodor Herzl (2). Ma dopo la scomparsa di Herzl nel 1904 e il passaggio della leadership del movimento sionista a militanti provenienti dall’Europa orientale, – il luogo dove l’ebraico si era rinnovato grazie agli sforzi dei rappresentanti della Haskalah -, si riaffermò il legame fra la rinascita nazionale e la cosiddetta “resurrezione” dell’ebraico (3). Comunque la si voglia chiamare – resurrezione, ripristino o semplice modernizzazione -, è fuor di dubbio che la promozione dell’ebraico a vettore del nazionalismo e del sionismo generò una saldatura tra la lingua ebraica resuscitata e l’emergere del movimento sionista.
Sionismo che a sua volta cercava di trasformare l’ebreo diasporico, yehudi, in un ivri, un nuovo ebreo parlante ebraico sulla terra dove si era formato l’antico popolo di Israele. Qualche mese prima della sua scomparsa il 21 dicembre 1922, Eli‘ezer Ben Yehuda ebbe la gioia di vedere l’ebraico riconosciuto come una delle tre lingue ufficiali della Palestina assieme all’inglese e all’arabo nell’articolo 22 della proclamazione del Mandato britannico sul paese (24 luglio 1922). Quando lo Stato di Israele si sostituì alla Palestina britannica, l’inglese perse il suo statuto di lingua ufficiale. Da quel momento in poi, solo l’ebraico e l’arabo conservarono questo statuto nell’ambito dello Stato ebraico.
Ritorniamo dunque alla nostra domanda iniziale e chiediamo cosa sia cambiato con la fondazione dello Stato di Israele nello statuto della lingua ebraica, già riconosciuta come lingua ufficiale sin dal 1922. Va sottolineato che questo statuto di lingua ufficiale o co-ufficiale della Palestina britannica non fu solo teorico. Lo Yishuv ebraico si era costituito in un proto-stato nel quale tutte le funzioni della vita moderna erano assunte dall’ebraico. Tant’è vero che nel 1934 venne riconosciuto dal Post and Telegraph Office della Palestina britannica il diritto di inviare telegrammi scritti in ebraico (4). E quando nel 1944 si creò la Brigata ebraica, gli ufficiali dell’esercito di Sua Maestà si accorsero che molti delle nuove reclute ebree non sapevano l’inglese.
Dopo il 1948, l’ebraico conquistò nuove funzioni sociolinguistiche nell’ambito del nuovo Stato. L’ebraico vernacolare si trasformò a causa dell’arrivo di molti ebrei provenienti da non meno di 102 paesi diversi. I nipoti e talvolta persino i figli degli immigranti nati già in Israele, persero rapidamente l’uso delle lingue dei loro genitori (5). Ma come spesso accade nelle situazioni di deriva linguistica (sostituzione di una lingua da un’altra), le lingue abbandonate lasciarono una traccia significativa nell’ebraico. Ciò spiega perché oggi esistono dei registri dell’ebraico parlato dove si riconosce sia un sostrato yiddish che un sostrato arabo (6). Per quanto riguarda l’ebraico moderno scritto, rimase più stabile nella sua evoluzione. Eppure anch’esso fu, ed è ancora, permeabile alle influenze esterne. Sebbene Eli‘ezer Ben Yehuda avesse raccomandato di formare nuove parole ebraiche sul modello dell’arabo, le lingue che esercitarono la più forte influenza sull’ebraico scritto furono il tedesco e il russo fino agli anni Sessanta (7), e poi l’inglese, che marcò e continua a marcare profondamente la sintassi, il lessico e la fraseologia dell’ebraico moderno (8).
In conclusione, non si deve considerare la data fatidica di 1948 come una tappa importante nello sviluppo dell’ebraico moderno poiché la lingua si era modernizzata molto prima ed aveva acquistato lo statuto di lingua ufficiale o co-ufficiale. Eppure il fatto che oggi l’ebraico sia parlato non solo fra ebrei israeliani ma anche nella comunicazione fra ebrei e arabi israeliani o palestinesi rivela che al di là del suo valore simbolico come lingua dello Stato di Israele, l’ebraico si è imposto come scelta per difetto non solo nell’orizzonte linguistico israeliano ma in una certa misura nell’interfaccia fra Israele e Palestina (circa 2 milioni di palestinesi, soprattutto in Cisgiordania, parlano fluentemente ebraico).
*Aix-Marseille Université/Accademia della lingua ebraica, Gerusalemme
Note
1. Sull’influenza del Risorgimento sul sionismo, vedi Shlomo Avineri, Risorgimento and Zionism, in: Italia-Israele: gli ultimi centocinquanta anni, Atti della Conferenza, Gerusalemme 16-17 maggio 2011, Milano, Fondazione Corriere della Sera, 2012, pp. 335-340.
2. Sull’indifferenza di Herzl nei confronti dell’ebraico, vedi il mio articolo L’indifférence de Théodore Herzl vis-à-vis de la langue hébraïque: causes et conséquences in: Perspectives: Revue de l’Université Hébraïque de Jérusalem, 17 (2010): 93-110.
3. Per una critica dell’idea che considera la rinnovazione dell’ebraico, vedi Ron Kuzar, Hebrew and Zionism: A Discourse Analytic Cultural Study, Berlino-New York, Mouton de Gruyter, 2001.
4. Liora R. Halperin, Babel in Zion. Jews, Nationalism, and Language Diversity in Palestine, 1920-1948, New Haven-Londra, Yale University Press, 2015, p. 114.
5. Su questo processo, vedi il mio articolo Langues européennes et dynamiques identitaires en Israël, 1948-2008, in: Langage & société, 132 (2010/2) : 101-116.
6. Vedi il mio articolo Mainstream Hebrew and Transit Camp Hebrew: Two Sides of the Same Coin, in: Carmillim. For the Study of Hebrew and Related Languages (HA‘IVRIT VE’AHYOTEHA), 12 (2016): 5-18 [in ebraico].
7. Irene Garbell, Fremdsprachliche Einflüsse im modernen Hebräisch, Darmstadt, Winter, 1930.
8. Vedi il mio articolo La langue hébraïque à l’épreuve de la mondialisation: volontarisme glottopolitique et tendance spontanée, in : Politiques linguistiques en Méditerranée, a cura di Michel Bozdémir e Louis-Jean Calvet, Parigi, Honoré Champion, 2010, pp. 203-215.