di Anna Coen
POLEMIZZO, DISSENTO, AFFERMO, RIBADISCO… Patriottico o sionista? Ebreo o israelita? Sei fascista o antifascista? Insomma di che ebraismo sei? L’avventura della stampa italiana in un convegno a Roma e i 100 anni de La Rassegna Mensile d’Israel
La pratica della scrittura – letteraria, saggistica, giornalistica… – è da sempre la via regia dell’autocoscienza ebraica, l’apertura di una finestra di coscienza nella definizione della modernità ebraica. L’identità ebraica si struttura da sempre in base alla parola, è una identità narrativa, interlocutoria, dialettica. Edmond Jabés diceva che per l’ebreo che voglia cimentarsi con la scrittura non c’è altra possibilità che «essere quel che si scrive, scrivere quel che si è».
Ma in quanti modi è possibile declinare a propria identità in termini di linguaggio, parole, scritti, “essere quel che si scrive e scrivere di quel che si è”? Un secolo e mezzo di storia degli ebrei d’Italia ci racconta una storia di pathos, di vivacità intellettuale, di discussioni e dibattito delle idee che è forse un unicum nella storia degli ebrei d’Europa, un’avventura del pensiero testimoniata dalle 70 testate giornalistiche e culturali uscite nel Belpaese tra il 1871 e il 1938, un numero esorbitante di pubblicazioni se rapportate, in percentuale, al numero davvero esiguo della presenza ebraica in Italia.
È a partire da queste parole di Fiona Diwan che ha preso le mosse il recente convegno a Roma per la celebrazione dei cento anni di una testata storica, La Rassegna Mensile d’Israel 1925-2025, evento seguito da una giornata di riflessioni su La Stampa ebraica Italiana, analisi e approfondimenti di storici, giornalisti, studiosi di letteratura, avvenuto a Roma nella sede della Biblioteca Nazionale dell’Ebraismo Italiano Tullia Zevi (26-27 novembre 2024, organizzato dalla Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia, dall’UCEI e dal CDEC, col contributo del Ministero della Cultura, direttori scientifici Gadi Luzzatto Voghera, Mario Toscano). Un’occasione per celebrare anche il nuovo sito e la digitalizzazione dei volumi della Biblioteca Nazionale dell’Ebraismo Italiano. A moderare la due giorni di studio Fiona Diwan, direttrice di BetMagazine-Bollettino di Milano e del sito Mosaico.
1925-2025, LA RASSEGNA MENSILE D’ISRAEL
La prima giornata è stata dedicata alla “più importante sede di dibattito culturale dell’ebraismo italiano”, ovvero Rassegna Mensile d’Israel con un intervento in incipit del direttore del CDEC Gadi Luzzatto Voghera che ha voluto ricordare le figure antagoniste di una coppia intellettuale storica, una coppia complice e insieme conflittuale: Dante Lattes e Alfonso Pacifici, i fondatori della rivista nel 1925.
Luzzatto Voghera ha analizzato il contesto storico del primo dopoguerra, la genesi giornalistica, le sue linee programmatiche, soffermandosi sul disorientamento generale di quei primi anni Venti, sui nuovi orizzonti politici e sulla ricerca di forme di resistenza culturale al neonato fascismo. E sottolinea un dato storico, ossia l’elevato numero di intellettuali e firmatari ebrei del Manifesto degli Intellettuali antifascisti voluto da Benedetto Croce nel 1925.
Mentre l’antisemitismo va crescendo, il 1 aprile del 1925 si inaugura l’Università di Gerusalemme grazie a Lord Balfour: vi assisterà anche Dante Lattes che sarà presente alla cerimonia cooptando moltissime firme di illustri di intellettuali i cui articoli tradurrà in italiano per poi ospitarli sulla Rassegna mensile d’Israel. Ma qual è l’idea genesiaca della rivista? La necessità di costruire una forma di israelitismo per fre in modo che il mondo ebraico possa davvero aprirsi all’esterno. È la ricerca di una nuova identità israelita e non più solo ebraica, aperta alla modernità e non più in odore di ghetto (bandita la parola ebreo, giudicata ormai obsoleta).
Sempre partendo dal Manifesto degli intellettuali antifascisti, anche la storica Anna Foa ricostruisce nel suo intervento gli albori del sionismo italiano e sottolinea il fatto che i numerosi firmatari ebrei non collaborarono mai alla Rassegna Mensile d’Israel sottraendosi così al dibattito e alla dialettica tra mondo ebraico e società civile.
Lo storico della letteratura Alberto Cavaglion si è invece concentrato sulla figura di un “grande dimenticato”, la figura di Giorgio Romano, «un prodigio di erudizione, bibliomane e bibliofilo raffinato, una personalità di confine, personaggio eccentrico», grande recensore, il letterato che più di tutti ha scritto fino agli anni Sessanta sulla Rassegna e il cui contributo al mondo culturale e dell’informazione ebraica è stato ingiustamente rimosso (è morto nel 1992).
IL DIBATTITO SU TEMI DI DIRITTO EBRAICO
E che dire delle discussioni e riflessioni rabbiniche? La Rassegna ha ospitato negli anni tutti gli argomenti possibili, sottolinea nel suo intervento Rav Riccardo Di Segni, dal divorzio all’aborto, dai diritti degli animali a quelli degli stranieri e migranti alla posizione delle donne fino a affrontare la drammatica sorte del mamzer, una sorte tristissima poiché egli non ha chiesto di essere nato. Fu lo stesso Dante Lattes a porre la questione del mamzer nel diritto ebraico, fu lui a gettare un sasso nello stagno e indubbiamente con Lattes la rivista diventa più piccante e provocatoria, ricorda Di Segni. Sulle sue pagine, sono moltissime le discussioni che vengono ospitate: su Spinoza e sulla laicità nella scuola ebraica o in che cosa consista l’educazione ebraica su cui, nel 1965, Lattes e Sierra litigano pubblicamente. Insomma, sottolinea Di Segni, la Rassegna volle sprovincializzare il mondo ebraico italiano e metterlo in contatto col più ampio dibattito delle idee del proprio tempo.
Nel numero di aprile del 1948, il primo del secondo dopoguerra, evitando di parlare di fascismo e antisemitismo, Dante Lattes saluta “l’alba del risorgimento ebraico” contro “l’apatia degli spiriti e la mestizia dei tempi”. Tra cultura e impegno politico: la guerra è appena finita e Lattes sente urgente il bisogno di dire che “l’ebraismo è un corpo vivente, non un’eredità morta”, spiega nel suo intervento Emanuele Ascarelli, autore televisivo, ex direttore di Sorgente di Vita ricordando che in quel momento storico, la Rassegna diventa “lo spazio della cultura più calma e riposata”. E mentre Javier Castano, storico, -direttore della rivista spagnola Sefarad, Presidente della European Association for Jewish Studies -, si concentra nel suo speech sulle riviste ebraiche durante i tempi oscuri delle dittature, del pregiudizio e delle persecuzioni, Mario Toscano –anch’egli storico, ex docente a La Sapienza di Roma -, sottolinea quanto in verità la Rassegna sia stata non solo la rivista culturale della nascita del sionismo in Italia ma anche una delle pagine più gloriose della grande autobiografia dell’ebraismo italiano che la stampa ebraica continua a scrivere instancabilmente, fino ai giorni nostri. Il primo a utilizzare la stampa come fonte storica e a studiarla nel suo divenire storico è stato in Italia Attilio Milano e dopo di lui, Bruno di Porto e Francesco del Canuto, specifica Toscano.
È invece un excursus storico quello tracciato da Carlotta Ferrara degli Uberti, docente di storia contemporanea all’università di Pisa: la studiosa parte dal 1870 e dal crollo della censura governativa sull’informazione: nascono periodici nuovi, testate generaliste e di nicchia. Un gruppo che non abbia un organo di stampa non viene percepito con rilevanza e pertanto diventa sempre più indispensabile uno strumento di comunicazione sia verso l’esterno sia verso l’interno, con finalità sia descrittive sia normative. Siamo a metà Ottocento: l’urgenza è quella di dire che cosa questo mondo ebraico deve essere e nel contempo offrire un luogo dove poter esprimersi in quanto ebrei, una tribuna dove chi vuole può parlare da ebreo su tutti i temi, spiega Degli Uberti. Nasce nel 1853 L’educatore israelitico, prima testata ebraica a diffusione nazionale, che poi prenderà il nome de Il Vessillo israelitico e che avrà come concorrente Il Corriere Israelitico di Trieste, testata che assume una postura filo sionista in diretta polemica col Vessillo che invece resterà non-sionista.
Tutto il mondo ebraico sta cercando di cambiare pelle e di adattarsi alla modernità, si verifica uno slittamento importante, spiega la docente: non più ebrei ma israeliti, onde stendere un velo sul nostro passato sociale, sui ghetti, sui nostri torti e soprattutto su quelli degli altri. Israelita: un termine che può essere associato a una nuova nazione ebraica, per conciliare l’essere ebrei con l’essere cittadini delle varie nazioni europee. Un’idea di integrazione ma non di assimilazione che sarà il clou di tutto l’atteggiamento ebraico del XX secolo. Una rappresentazione dell’integrazione in corso, con cronache, letture, gossip comunitario…, questo saranno i giornali ebraici. Viene rievocata una celebre polemica: nell’anno 1900, all’indomani dall’assassinio del re Umberto I, si uniscono al cordoglio generale due rabbini italiani, Giuseppe Foà a Torino e Eude Lolli a Padova. Entrambi sottolineano che “più che israeliti siamo soprattutto italiani”, uscita che fa infuriare Dante Lattes. Sul Corriere israelitico Lattes scriverà che è mostruoso che un rabbino dica una cosa del genere, perché un rav non deve occuparsi direttamente di politica: l’italianità che schiaccia l’identità ebraica? È mai udibile una cosa simile, dice? Ma il tema è tra i più roventi: come conciliare allora i due poli dell’italianità e dell’ebraicità? Sarà proprio questo uno dei nodi di tutta la stampa ebraica italiana, la ridefinizione costante di cosa significhi essere ebrei e di come conciliare una pluralità identitaria.
Che cosa è stato il cosiddetto israelitismo italiano, si chiede Gadi Luzzatto Voghera, che cosa si intende con questo termine? È un modo radicale e nuovo di intendere se stessi. La sostituzione della parola ebreo con la parola israelita rimanda a una nuova declinazione dell’identità ebraica, fu un modo per traghettare la popolazione sottoproletaria dei ghetti verso una condizione borghese, attiva e intraprendente. Tutti all’improvviso diventarono israeliti ansiosi di integrarsi, smisero di vedere l’antisemitismo che li aveva circondati fino al giorno prima, giunsero addirittura a negarlo, spiega Luzzatto Voghera. Chi per primo registrò questa trasformazione – in chiave negativa – fu Il Vessillo Israelitico: la testata sottolineava la decadenza religiosa e spirituale, un ebraismo stanco, debole, vanitoso, lontano dalle sue scaturigini. Luzzatto Voghera non manca di rimarcare l’importanza de Il Vessillo come fonte storica per ricostruire la storia dell’ebraismo italiano.
Noi ebrei italiani siamo una miniatura, qualcosa di piccolo, unico e prezioso, esordisce nel suo intervento – citando Chaim Weizmann -, Simonetta Della Seta, Presidente del gruppo di lavoro Memoriali e Musei dell’IHRA, ex direttore del MEIS di Ferrara, studiosa e giornalista. Con la consueta verve, Della Seta spiega il rapporto contraddittorio tra il movimento sionista italiano e la stampa ebraica. Dopo tre anni dal congresso di Basilea nel 1897, ad Ancona si riunisce un gruppo di professionisti per creare il primo nucleo di quello che sarà il sionismo italiano. Siamo nel 1900 e già l’Italia aveva visto emergere due personaggi, due precursori e nazionalisti ebrei ante-litteram, Shadal e Elia Benamozegh, animati da un patriottismo nel senso ebraico, rivolto alla Terra di Israele. In questi anni non si crea una vera frizione tra l’essere ebreo-sionista e ebreo-italiano. Anzi. Il sionismo dell’epoca è parte del risveglio ebraico e cerea una effervescenza nel tessuto sociale ebraico. Si crea un contesto sionistico: nel 1904 Theodor Herzl viaggia in Italia, una visita importante, e dopo di lui lo seguiranno a ruota, in Italia, Jabotinski, Sokolov, Weizmann, ovvero i padri fondatori, il nucleo primigenio quasi al completo. Nasce la testata L’Idea Sionista, diretta da Felice Ravenna. Ma è con il 1917 e la Dichiarazione Balfour che inizia la politicizzazione della questione sionista, diventando così, i sionisti, i definitivi paladini della causa nazionale ebraica. Appelli, memoriali, colloqui, congressi… Il mondo ebraico si dividerà negli anni Venti, alcuni dedicheranno le loro energie all’antifascismo, come Nello Rosselli; altri sposeranno l’idea di un sionismo identitario, indissolubile rispetto all’essere ebrei, come Alfonso Pacifici; altri ancora come Enzo Sereni faranno propria una forma di sionismo esecutivo che ti porta direttamente in Terra d’Israele. Il tutto sulle pagine della rivista Israel alla cui redazione verrà appiccato il fuoco da un gruppo di fascisti.
Ma come si comporta la stampa ebraica di fronte al fascismo? Ad indagare questo tema è Gabriele Rìgano, docente di Storia Contemporanea all’Università di Roma 3, che sottolinea l’importante scissione che avviene nel mondo ebraico tra ebrei sionisti e ebrei fascisti, questi ultimi riuniti intorno al giornale La Nostra Bandiera diretta da Ettore Ovazza e Giuseppe Liuzzi (l’unica concessione sarà verso il cosiddetto sionismo revisionista di Jabotinski).
Ma il cambiamento epocale avviene anche nel mondo femminile ebraico animato da slanci libertari, contro il “cappio maritale” e al grido emancipatore di sfuggire alla barbarie di una vita che non lasci a loro solo lo spazio della cura casalinga o dell’insegnamento: Monica Miniati, storica, ex docente e ricercatrice, racconta con una appassionante galoppata l’avventura femminile ebraica di emancipazione all’indomani dell’abolizione dell’autorizzazione maritale, norme che condannavano le donne a non poter fare niente senza il nulla osta del marito. Un attivismo battagliero per il divorzio, per l’abolizione della prostituzione ma anche per la costruzione di bibliotechine e reti sociali onde alfabetizzare la popolazione femminile. I nomi sono numerosissimi da Carolina Luzzatto a Fanny Tedeschi a Erminia Diena, da Cesira Levi a Lina Ajò a Paola Lombroso che inventa il mitico Corriere dei Piccoli per poi vederselo scippare letteralmente dai colleghi giornalisti maschi.
Col secondo dopoguerra, con la rinascita delle Comunità ebraiche e il ritorno dei sopravvissuti si tratta di rifondare una vita ebraica cancellata dalla Shoah. Se fino agli anni Trenta le riviste erano state lo specchio del dibattito culturale ebraico, ora i periodici diventano decisamente più istituzionali e espressione delle Comunità ebraiche che risorgono, un mezzo per rimettere insieme i pezzi di una identità smembrata, uno strumento di coesione sociale, un collante in grado di dare voce alla sensibilità collettiva, spiega Guri Schwarz, docente di Storia Contemporanea all’Università di Genova. Anche qui, le testate ebraiche si fanno interpreti del clima generale, con una sorta di resa dei conti tra collaborazionisti, antifascisti, ex simpatizzanti del regime. Dopo averla inizialmente osteggiata, anche l’UCEI fa propria la linea sionista, parimenti a il Bollettino di Milano e a Israel. Vi si discosta invece HaTikva, il giornale dei giovani, organo della FGEI, che si chiede non solo “come essere antifascisti e ebrei nel dopoguerra” ma anche come coniugare marxismo e Torà, in uno spirito antisistema e radicale di “giornale aperto al libero confronto delle idee”.
Una identità pluralista, molto vicino alla sinistra italiana degli anni Sessanta e Settanta quella dei ragazzi FGEI, uniti dal binomio indissolubile ebrei-antifascismo, spiega Giorgio Segrè, ex direttore di HaTikvà in un vibrante intervento. Da quella esperienza incredibile nascerà il CDEC poiché uno dei cardini di quella testata diviene la costruzione della Memoria, l’idea della conservazione, della tutela di un patrimonio da conservare e custodire, nel timore che possa svanire o essere cancellato. Giorgiò Segrè rievoca i giorni del Congresso FGEI di Chiavari nel 1974 o ancora l’incontro tra i giovani di HaTikvà e l’allora Presidente Sandro Pertini. L’attentato del 1982 alla sinagoga di Roma fermerà in modo drammatico quella comunione d’intenti tra giovani ebrei e sinistra italiana.
Ma in che modo la stampa ebraica ha saputo esprimere anche il dibattito rabbinico, halachico e spirituale dell’ebraismo? Se lo chiede rav Gianfranco Di Segni, direttore dimissionario de La Rassegna Mensile di Israel (gli succedono oggi, in doppia direzione, Liliana Picciotto e Myriam Silvera). Si può parlare anche di testate confessionali? Sì, se pensiamo a due riviste, Torat Chaim fondata a Torino nel 1916 da rav Menachem Emanuel Artom; e Segulat Israel oggi supervisionata da Donato Grosser e un tempo da Alfonso Pacifici che entrò a far parte della cerchia di Rav Margulies. Una rivista quest’ultima di pensiero ebraico, mai provinciale ma animata da un vasto respiro nell’affrontare temi di attualità, con particolare enfasi posta sulle figure di rabbini italiani e sui temi caldi all’ordine del giorno, dalla maternità surrogata all’intelligenza artificiale al diritto ebraico in merito agli ostaggi e alla loro liberazione…
L’ultima sessione del convegno, moderata da Dario Disegni, Presidente della Fondazione per i Beni Culturali Ebraici, ha visto gli interventi di Lia Levi per Shalom, di Annie Sacerdoti per il Bollettino, di Anna Segre per HaKehillà e Hulda Brawer Liberanome per Toscana Ebraica.
Il mondo ebraico giace oggi nello spazio della vulnerabilità, sperimenta di nuovo dopo lunghi decenni quel senso di precarietà, di fragilità, così famigliare alle generazioni che ci hanno preceduto. Tuttavia, oggi come ieri, la stampa ebraica italiana cerca di farsi testimone del presente, farsi interprete della sensibilità collettiva cercando di non cadere in allarmismi o in posizioni divisive, e senza alimentare lo smarrimento e la depressività che l’attualità odierna possono trasmettere. Una informazione seria, asciutta, attenta deontologicamente a citare le fonti. Cercando, non ultimo, di tenere unito e coeso il corpo sociale ebraico.