di Gabriele Nissim
Un essere umano, ma direi anche un Paese, si giudica anche dai suoi sogni, non solo quando gli eventi vanno in una buona direzione, ma anche quando tutto sembra andare storto. La filosofa Agnes Heller, che ci ha appena lasciato, scriveva che la bella persona è quella che accetta il proprio destino, ma che ambisce per tutta la vita ad essere buona, anche se non raggiungerà mai la meta, come essere parziale e fragile, ma ci proverà comunque.
Etty Hillesum viveva l’inferno nel campo di concentramento, ma sognava che dopo la fine della guerra potesse nascere un mondo senza odio e senza nemici.
Uno dei politici del nostro tempo che ha legato il suo percorso all’idea del sogno è stato il premio Nobel per la pace Shimon Peres.
Domenica nella sinagoga di Milano parlerò di lui, a poche ore dalle prossime elezioni israeliane, con Nadav Tamir, il direttore del centro Peres che è stato in tanti anni il suo più fedele collaboratore.
Mi capita così l’occasione di rivisitare una prospettiva politica ed esistenziale che non vale solo per il passato, ma che è molto attuale nei nostri tempi.
Mi sono riletto l’intervento che Shimon Peres fece ad Oslo il 10 dicembre del 1994 nel momento in cui sembrava che la pace definitiva nel Medio Oriente fosse a portata di mano.
Allora il Ministro degli esteri israeliano fece anche una riflessione sulla sua vita.
Un uomo, raccontò, non può fermare il corso dei suoi anni, ma ha sempre la possibilità di rimanere giovane con i suoi sogni. Le leggi della biologia non si applicano alle proprie aspirazioni, sono indice della vitalità dell’essere umano e gli allungano la vita. La sua famiglia riuscì infatti a superare il dramma della persecuzione e della guerra con il sogno di uno Stato ebraico. Se lui e i suoi genitori non avessero avuto questo sogno non sarebbero forse sopravvissuti e non sarebbero mai sbarcati nel porto di Jaffa.
Ma neanche quella terra conquistata in tante guerre poteva bastare se non si immaginavano nuovi sogni.
Le guerre per l’indipendenza gli avevano fatto capire due cose importanti. Si può anche vincere con le armi, ma poi non necessariamente ottenere la pace. La guerra gli aveva fatto comprendere che per ottenere la pace non bastano le armi più sofisticate, ma bisogna prima di tutto creare degli uomini migliori in tutto il Medio Oriente. È questa la garanzia che determina la vittoria.
Shimon Peres immaginava due grandi sogni, uno per l’Israele del futuro e uno per i popoli di tutta l’area mediorientale.
Dopo la conquista territoriale non era tanto importante il numero degli ebrei che sarebbero andati a vivere in Israele, quanto il carattere morale dello Stato che avrebbe dovuto diventare un centro spirituale e tecnologico al servizio del mondo intero. Il carattere particolare degli ebrei e degli israeliani avrebbe dovuto aspirare ad avere sempre una dimensione universale. Si era ebrei veri quando ci si sentiva cittadini del mondo. Il particolare e l’universale dovevano essere l’anima dell’identità ebraica.
E anche il Medio Oriente doveva cambiare. Il luogo da cui erano nate le tre religioni monoteiste doveva diventare un riferimento morale per il mondo intero. Pungete la sua battuta: “ Qui da noi tutti si vantano di essere stati la culla della civiltà, ma è ora che la finiamo di essere soltanto dei bambini per tutta la vita.” Era tempo di diventare uomini maturi.
Come Etty Hillesum lanciava una grande sfida.
Tutti i popoli del Medio Oriente dovevano sentirsi impegnati per superare nel linguaggio politico l’idea del nemico, l’idea più obsoleta e pericolosa per il genere umano.
Di fronte a chi divideva il mondo, gli Stati e le religioni in entità contrapposte era tempo di dire che l’umanità intera si doveva unire contro i veri nemici che mettono in pericolo la nostra sopravvivenza: la povertà, la fame, la radicalizzazione religiosa, le droghe, la proliferazione nucleare, la desertificazione, i cambiamenti climatici.
Era tempo di costruire un Medio Oriente senza guerre, senza nemici, senza missili balistici, senza testate nucleari, senza dogane, dove tutti potessero circolare liberamente, dove ognuno avesse la libertà di pregare liberamente e senza censure nella propria lingua, in arabo, ebraico, latino, dove la massima aspirazione fosse l’istruzione per tutti e la cooperazione scientifica e tecnologica.
Oggi, 25 anni dopo, sembrano forse i sogni di un ingenuo, di fronte ad un moltiplicarsi delle guerre, dei fanatismi e dei nazionalismi in tutta l’area.
Qualcuno lo chiamerà buonista e dirà che la sua profezia ha fallito e che la forza delle armi deciderà ancora una volta il futuro.
Come però aveva capito Shimon Peres, la prospettiva della pace è l’unica speranza realista perché senza cooperazione e condivisione i popoli del Medio Oriente minacciati più degli altri dai cambiamenti climatici e dalla siccità, possono soltanto affondare.
Peres li aveva invitati a sognare per dare un senso al destino di tutti e per insegnare loro il segreto della giovinezza.
La decadenza comincia quando si smette di sognare.