La Notte delle Faville

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Scienziato, triestino, di origine ebraica, scrittore. Livio Isaak Sirovich non perde il vizio di scrivere e di raccontare. Ecco un brano dal suo ultimo libro.

Davanti venivano i cavalieri in fila per tre avvolti in ampi mantelli scuri, con colbacchi di pelliccia, lunghi fucili a tracolla con le canne all’insú, spada al fianco, calzoni alla zuava con bande colorate, stivali al ginocchio. Avevano cavalli bardati con finimenti ornati di borchie e di fibbie. Da lontano, l’impressione era maestosa. Dietro a loro si intravvedeva una banda appiedata, con tamburi e grandi ottoni. Alvise si accorse che dalla curva stavano sbucando come due… due strani cavalli con le gobbe e il collo in su, che trainavano un landeau nero; due cammelli, ma non come quelli del presepe, tutti lanosi! Avanzavano svogliati oscillando lentamente il testone di qua e di là. Ogni tanto, al loro passaggio, le due ali di spettatori si scomponevano improvvisamente. Solo quando furono più vicine vide che ogni tanto le strane bestie lanciavano grossi sputi contro gli esterrefatti sanpietresi. Dietro, un altro landeau e ancora cavalleggeri. Gli abitanti di Speterbong-San Pietro guardavano a bocca aperta e anche ad Alvise pareva di sognare, ma poi notò che le pellicce nere pendenti dalle selle della guardia erano ridotte a brandelli. I manti di panno frusto mostravano toppe di vario colore e dalle giacche bisunte, sulle quali spiccavano due cartuccere di stoffa cucite obliquamente, mancava più di qualche bottone. I fiati erano tutti ammaccati, da banda di circo di quart’ordine. Lo colpì l’odore fradicio delle uniformi a tratti sovrastante il tanfo dolciastro delle coperte fumanti dei cavalli».

Cinematografica questa tua descrizione dell’arrivo delle truppe collaborazioniste dei tedeschi nel villaggio carnico del tuo ultimo romanzo La Notte delle Faville (Mursia). Ancora un libro sulle tormentate identità delle zone di frontiera, e con un nucleo ebraico…
Diciamo che è il mio chiodo fisso. Non per niente sono nato e vissuto a Trieste. Mamma era una Isaak, ebrea di lingua tedesca del Distretto di Memel (ora Klaipeda); papà era cattolico miscredente, di una famiglia di paroni de barche originaria delle Bocche di Cattaro (oggi Montenegro).

La storia di tua madre l’hai raccontata in un libro per Le Scie Mondadori (tradotto in tedesco da Kunstman, Monaco, nel 2001). Stavolta invece è un romanzo storico…
Sì, storico-identitario.

La trama? La vuoi riassumere tu?

Un giovane bassanese disertore, Alvise, cattolico fervente confusamente affascinato dal marxismo, nell’autunno del 1944 si rifugia in un paesino di montagna al confine con l’Austria. San Pietro-Speterbong è abitato da montanari italiani, che parlano uno strano dialetto todesco e seguono antichissime credenze. “Adottato” dal prete, impegnato a barcamenarsi fra gli occupanti cosacchi filonazisti e i partigiani, il protagonista viene coinvolto nella costruzione di una nuova chiesa finanziata con un tesoro di origine forse vergognosa. La manìa del Curato è di ricreare il Cenacolo, riuscendo a costruire un edificio di culto più grande di quello del Vescovo, che possa riscattare il paese dal Peccato Originale di discendere da una popolazione non italiana (e lui stesso da una famiglia ebraica). Ma, dopo anni di lacrime, sudore e sangue, la costruzione rischia di diventare la rovina dei suoi discepoli.

Quanto c’è di vero, quanto di romanzato?

Beh, sì, l’origine di questo tesoro è uno dei più chiacchierati misteri della Carnia (che sarebbe la parte del Friuli montuoso, attorno a Tolmezzo e fino al confine austriaco). Ne sentii parlare fin da quando facevo l’alpino in zona. Chi diceva che l’avessero lasciato i Cosacchi, chi i Tedeschi, nessuno capiva perché. All’inizio, pensavo ad una microstoria. Volevo seguire la vita del paesino prima, durante e dopo l’irrompere dei tedeschi e della guerra partigiana. Indagare il loro modo di convivere con i “cugini” germanici in divisa nazista, capire com’era andata con le famiglie e le truppe Cosacche e caucasiche, di religione ortodossa, musulmana e perfino buddista, che avevano seguito la Wehrmacht durante la lenta ritirata sotto l’incalzare dell’Armata Rossa. Parte dei Cosacchi arrivati nel “mio” paesino erano reduci dall’aver partecipato alla liquidazione del ghetto di Varsavia, ed i tedeschi avevano promesso che si sarebbero potuti stabilire definitivamente proprio in Carnia. Gli storici, che hanno ricostruito quelle vicende, avevano potuto consultare tutti i diari delle chiese della Carnia, meno che il diario del “mio” paese. Quello era inaccessibile, tenuto segreto anche dal quarto successore del curato, che l’aveva scritto durante il difficile, e per certi aspetti ambiguo, periodo in cui gli 800 paesani todeschi erano convissuti con i veri Tedeschi, con gli ufficiali delle SS, che andavano a caccia di camosci e di partigiani. Probabilmente, nel diario il sacerdote aveva annotato le circostanze in cui il tesoro era diciamo così saltato fuori.

Un diario segreto…

Sì, e sono riuscito a venirne in possesso. Non ti dico come perché se no facciamo notte.

Ma perché hai deciso di farne un romanzo?
Per rispetto dei “miei” valligiani. Ho soggiornato spesso in paese e gli voglio bene. Rischiavo di toccare questioni troppo dolorose. Te ne dico solo una, che si può raccontare. Il 21 luglio 1944, un gruppo di una ventina di finti partigiani si presentò alla Malga Promosio, e, ottenuta generosa ospitalità, a titolo di esempio sterminò tutti i pastori ed i malgari presenti. Erano sedici, il più giovane aveva 14 anni; se ne salvò uno lasciato per morto (Vedi la testimonianza di Rodolfo di Centa. Testimone oculare; Valle del But (Carnia) 1944-1945. Chei di Somavile, Paluzza (UD) 2004. Il testo è acquistabile (0433-775591) e anche scaricabile da Internet). Col tempo, si è consolidata la versione di comodo per cui i responsabili sarebbero stati nazisti tedeschi. Ed invece furono in prevalenza fascisti italiani, probabilmente triestini, con almeno un carnico. Ma i per i “miei” paesani todeschi, da sempre considerati dagli italiani potenzialmente infidi, era assai imbarazzante chiedere giustizia contro degli italiani veri. Seguendo il filo di questa vicenda, mi sono trovato coinvolto in più di un segreto. Uno l’ho potuto raccontare; altri no, perché avrei rischiato di turbare l’equilibrio di un popolo di frontiera che non è mai stato lasciato in pace: non dagli italiani, che durante la Grande Guerra li internarono in Calabria ed in Piemonte, non dagli austriaci, che prima li consideravano mezzi traditori anche loro e che poi, nel ’44, li annetterono al III Reich in nome del sangue germanico. Loro stessi tuttora non sanno bene se sono carne o pesce: si sentirebbero – come gli è stato insegnato di dire – italianissimi ma sono, giustamente, molto attaccati al loro dialetto carinziano del XV secolo. Il “mio” paese è uno di quei luoghi dove la Storia sembra essersi divertita a intrecciare le trame in modi oscuri. E così l’ho girata in romanzo. È stata una bella avventura, perché ho finalmente potuto lavorare anche di fantasia. Dato il finale, tengo ad esempio a sottolineare che la soluzione del giallo è inventata.

Accennavi a contenuti ebraici.

Nel paese vero, esiste da tempo immemorabile una Juden Gasse, senza che gli abitanti ne conoscano il motivo. Sopra il paese, ma dal lato austriaco, le carte topografiche ufficiali indicano tuttora la presenza di prati chiamati «Judengras», ai piedi di un collinozzo detto «Judenkopf». Quando ho chiesto ad un montanaro austriaco del posto perché li chiamino così, sorridendo mi ha risposto: «Ah, è un’erbaccia rifiutata dal bestiame». Ancor oggi, in un’intervista giornalistica, la signora Grete Klaus, proprietaria dell’Alpengasthof Eder, dichiara di ricordare con nostalgia «il periodo della guerra; eravamo felici interiormente. Avevamo fiducia nel Fuerher e si nutrivano ancora, nonostante la batosta di Stalingrado, grandi speranze sul divenire dell’Europa, un mondo che purtroppo è crollato in tutte le sue dimensioni con la caduta della Germania». Ma, a parte questi agganci con la realtà storica ed attuale, uno dei temi dominanti del libro è il modo tradizionale della cultura cattolica pre-conciliare di concepire gli ebrei.

Tu sei stato battezzato…

Sì, alla nascita, ed anche cresimato; quindi, sarei divenuto “soldato di Cristo”, come dicevano. Mia madre aveva rinunciato a darmi un’educazione ebraica. Era da poco finita la guerra; probabilmente, giocò anche la speranza in un futuro più tranquillo per il figlio. Poi, col tempo, mi sono definitivamente allontanato dal cattolicesimo. Ma senza abbracciare un’altra religione. Non sono un credente. Rimango uno sperante, sperante in un Dio solo. Al liceo, fra il ’63 ed il ’68, in classe eravamo in trentasei, tutti cattolici. Solo due di noi avevano un genitore ebreo: il figlio di profughi cecoslovacchi ed io, ma allora credevo che tutti lo ignorassero. Lui, Misha, aveva ebreo il papà, mentre la mamma era protestante; e lo avevano fatto cattolico. Eravamo una classe molto affiatata; mai un episodio che potesse far pensare ad una qualsiasi forma di antisemitismo. Però 30 anni dopo, durante una rimpatriata, saltò fuori un libriccino in cui alcuni compagni segnavano i soprannomi “segreti” di tutti i compagni. Per Misha c’era Süss l’ebreo. Vicino al mio cognome, che allora era Siro perché nel ’28 era stato tagliato il patronimico slavo, c’era scritto: L’Ebreo errante.
Il mio cognome anagrafico è di nuovo Sirovich dal ’92, ma firmo i miei libri anche con il cognome della mamma: Livio Isaak Sirovich, perché mi sento in pace con la mia doppia radice.