Le donne nella resistenza iraniana: evento Adei-Wizo al Memoriale della Shoah di Milano

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di Sofia Tranchina
Prosegue imperterrita la resistenza delle donne iraniane, iniziata cinque mesi fa quando una ciocca di capelli fuori posto risultò fatale per Mahsa Amini, picchiata e torturata a morte dalla polizia morale del regime islamico. Dopo di lei, molte altre donne sono corse incontro a un destino che le ha rese martiri, togliendosi il velo e pronunciando il motto Jin, Jîyan, Azadî (Donna, Vita, Libertà).

Un fenomeno che coinvolge tutti noi e che non può passare in sordina. Per capirne i principi, l’Associazione Donne Ebree d’Italia ADEI-WIZO, grazie soprattutto all’impegno della vice-presidente Roberta Vital, ha organizzato presso il Memoriale della Shoah di Milano un evento che ha visto la preziosa partecipazione di due attiviste iraniane, Delshad Marous e Rayhane Tabrizi, e del regista Ruggero Gabbai, il quale si è fatto carico di «trasmettere il loro urlo di protesta» nel documentario che sta girando.

«È importante restare al fianco delle donne in Iran – spiega la presidente dell’ADEI-WIZO Sylvia Sabbadini –. La nostra associazione è il primo partner per il welfare del governo di Israele per proporre leggi e normative in difesa dei diritti delle donne. Per questo, abbiamo deciso di usare la nostra rete per parlare della resistenza delle donne iraniane».

Roberto Jarach, presidente del Memoriale della Shoah di Milano, ha aggiunto che la fondazione è sempre disponibile ad ospitare iniziative di questo tipo, e sta infatti progressivamente diventando il punto di riferimento di molte associazioni.

Moderatrice dell’evento, la giornalista e saggista Fiona Diwan – nonché direttrice dei media della comunità ebraica di Milano – ha appunto ricordato le numerose relazioni tra la resistenza delle donne iraniane e le comunità ebraiche. La maggior parte degli ebrei persiani che si trovavano in Iran sono stati violentemente espulsi, e la comunità di 20 mila ebrei ancora oggi presente sul territorio rimane in ostaggio come moneta di scambio per le trattative.

«Laddove una società civile discrimina e uccide le minoranze, le sue donne, gli ebrei, i bahai, questa società civile si sta ammalando – ha spiegato Diwan -. Misoginia e persecuzione vanno a braccetto; non per nulla la Repubblica Islamica dell’Iran nega l’olocausto e come prima esecuzione pubblica nel maggio del ‘79 ha ucciso uno dei capi della comunità ebraica e diciassette suoi membri. Stiamo assistendo a una catena di vite spezzate. Si tratta di un Paese di 87 milioni di abitanti di cui ben il 49,7% sono donne. Non vanno dimenticati nomi delle donne uccise, di cui molte minorenni, ‘e il modo ancor ci offende’».

È intervenuta anche Anna Scavuzzo, vicesindaco di Milano e assessore all’istruzione del Comune di Milano, che ha ricordato come non si possa mai dare per scontato un diritto acquisito, e per questo viene spontaneo immedesimarsi ed empatizzare con le donne iraniane: «ci sono azioni che per noi più ancora che dei diritti sono delle abitudini, parte integrante della nostra vita in un paese plurale, che non metteremmo in discussione. Eppure, quello che sta succedendo in Iran, ma anche in Afghanistan, ci dimostra che niente è dato una volta per tutte, e anche per questo la loro battaglia ci appartiene, nella consapevolezza che, anche per noi, altri prima di noi hanno combattuto per i nostri diritti».

Infatti, la condizione delle donne in Iran non è sempre stata la stessa: sotto la dinastia Pahlavi (1926-1979), le donne godevano di diritti e libertà, sottratti loro solo 40 anni fa all’avvento del regime islamico sciita e dell’imposizione delle leggi della sharia.

«È importante tenere a mente che l’Iran non è un paese di barbari. Sul palco iraniano di oggi vediamo una società civile assolutamente avanti rispetto a dei governanti che non sanno più con chi stanno parlando» aggiunge Fiona Diwan.

Infatti, la prima richiesta che fa l’attivista iraniana Delshad Marous è che venga tenuto sempre distinto il nome dell’Iran da quello del regime islamico. «Loro hanno rubato il nostro Paese, rubato la nostra cultura, preso 87 milioni di persone in ostaggio. Ma loro non rappresentano l’Iran. La resistenza delle donne è iniziata cinque mesi fa, ma il popolo iraniano sta lottando già dal ’79. Da quando mi hanno messo l’hijab per uscire di casa, e ho capito la differenza tra i miei diritti e quelli dei miei fratelli maschi, ho capito anche che dovevo combattere. Ora stiamo arrivando alla fine della lotta: nelle nostre menti il regime islamico è già crollato».

L’attivista Rayhane Tabrizi aggiunge: «il 60% degli universitari in Iran sono donne. Le donne possono avere un dottorato e raggiungere ruoli di prestigio, diventare amministratori delegati d’azienda, entrare nel governo… non sono bloccate come in Afghanistan. Questo perché, nonostante la grande oppressione del regime, i nostri padri, fratelli e mariti ci spingono a diventare donne forti e indipendenti. La nostra cultura è quella millenaria di Ciro il Grande, l’imperatore persiano che scrisse il primo emendamento per i diritti umani. In Iran il popolo vive una doppia vita, una dentro le case e una fuori: non bisogna dimenticare che le donne sono in prima linea, ma dietro hanno il supporto degli uomini». L’insurrezione, infatti, ha visto un forte coinvolgimento del mondo maschile, senza distinzione di età e di credo religioso.

«Diffondete la voce che l’Iran non c’entra con il regime islamico – ha continuato -. Bisogna mettere il nome delle forze armate del governo, i pasdaran, tra la lista dei terroristi, e tagliarli fuori dall’economia».

Tuttavia, trovandoci davanti a un regime così strutturato come quello iraniano, che ha costruito una dorsale sciita che va da Teheran al Mediterraneo, attraversando l’Iraq, la Siria, e il Libano, alleato con Putin, inebriato da un potere geopolitico di ampia portata, viene da chiedersi, e lo chiede infatti Fiona Diwan, «cosa alimenta la grande fiducia di riuscire a sovvertire una struttura di potere che si è cementata in 44 anni?».

 «Noi siamo certe che vinceremo – risponde Tabrizi – perché oltre alle manifestazioni in strada c’è una rete di resistenza molto più ampia, come le formiche sottoterra. Le grandi industrie stanno aderendo allo sciopero nazionale, la gente toglie i soldi dalle banche e usa solo contanti per comprare dagli artigiani, boicottando così i grandi marchi che riciclano i soldi per il regime. Il regime si è indebolito. I banchieri in Canada stanno registrando i nomi di tutti gli iraniani che portano soldi in Canada, perché un giorno bisognerà dimostrare che sono i soldi rubati al popolo. I pasdaran gestiscono inoltre i più grandi produttori di droga in Medioriente, con cui danno soldi anche a Hezbollah, ai talebani, al nuovo capo di al Qaeda. Bisogna inserirli nella lista dei terroristi. Puntiamo a rovesciare il governo con la forza della parola e della determinazione, senza armi, sia perché non vogliamo intraprendere la stessa strada già battuta dal regime islamico, sia perché il nostro governo ha le armi più potenti del mondo e non potremmo competere».

Dal pubblico, Dvora Ancona ha chiesto inoltre che effetti abbiano le sanzioni che da più di 15 anni si fanno contro il regime islamico. «Purtroppo le sanzioni non colpiscono nel profondo, e danneggiano più il popolo che il regime, perché tutti – benché sappiano che i soldi vanno ai terroristi – comprano comunque petrolio iraniano nel mercato nero. Tuttavia, le sanzioni rimangono un mezzo importante per combattere e dovrebbero anche essere aumentate», rispondono le attiviste.

Tabrizi, che ha lavorato come operatrice di volo prima di lasciare l’Iran, è inoltre testimone del traffico di armi e di personale specializzato in azioni terroristiche sugli aerei di linea di IranAir. «Quando ci facevano fermare a Beirut, dalla porta posteriore con dei pullman arrivavano degli zotici con la barba che ci spaventavano. Molti di loro parlavano arabo, c’erano anche iracheni. Non dovevano neanche passare dalla fila del passaporto, accedevano ai nostri voli senza un controllo dei documenti, e noi avevamo paura di avvicinarci. Altre volte ci facevano partire con dei voli vuoti, e solo dopo l’atterraggio ci mostravano le stive riempite di armi. Ormai lo sapevamo, e prima di partire noi del personale dicevamo sempre: “speriamo che non facciano cadere l’aereo, e di tornare sani e salvi a casa”. I pasdaran sono dei terroristi proprio come l’ISIS, e indottrinano i bambini a credere che l’unica cosa importante sia il leader, e tutto il resto non abbia valore; è così che si arriva ad avere dei ragazzini di 13 anni che puntano il fucile contro donne di 60 anni».

Un altro grande problema sono le sedi capillari del regime nei Paesi occidentali, officine di monitoraggio del dissenso e laboratori operativi. «In America i lobbisti del regime pagano i governatori per sciogliere le sanzioni sul nucleare – spiega Tabrizi -. In Italia bisognerebbe chiudere il centro culturale iraniano perché, anche se crediamo fortemente che la libertà debba includere anche il diritto di credo per i musulmani, questo centro è un posto di riciclo di denaro e di propaganda sciita. Molti di loro vengono alle nostre manifestazioni a raccogliere materiale e scattare foto delle nostre facce. Bisogna contrastare il regime anche nelle sue diramazioni».

Alle manifestazioni partecipava anche il regista Ruggero Gabbai, che sta girando un documentario sulle scosse della civiltà iraniana, del quale ha mostrato alcune clip durante la conferenza. «Bisogna dare spazio a questo argomento, sensibilizzare l’opinione pubblica – ha spiegato -. Le clip delle manifestazioni, con la loro arte e teatralità, dimostrano la forza di queste donne. Il film finirà quando Delshan e Tabrizi metteranno piede nell’aeroporto di Teheran. Di quello che sta succedendo, la cosa più preoccupante è che quando si fa del male a nome del bene, sotto le mentite spoglie della religione o di qualche ideale, non c’è un limite al male che si può fare, al male che ci si può autogiustificare».

L’evento si è concluso con l’urlo del pubblico del motto Jin, Jîyan, Azadî.