di Sofia Tranchina
Il tema – comune in tutta Europa – dell’edizione 2021 della Giornata Europea della Cultura Ebraica è Dialoghi: quest’anno le conferenze, gli spettacoli, i concerti e le letture, saranno dedicate al tema dei dialoghi nell’ebraismo.
Tra questi, il 9 ottobre Marina Bassani proporrà al pubblico dell’auditorium del Museo della Scienza e della Tecnica la sua lettura teatrale dello struggente quanto sconvolgente monologo Yossl Rakover si rivolge a Dio.
Non è la prima volta che l’attrice-regista mette in scena questo testo: «quando ho scoperto questo libro, l’ho trovato subito pregno di quel tipo di dialogo che è al fondamento del teatro delle origini. Monologo che diventa un dialogo lacerante con l’invisibile-nascosto, si presta bene al teatro, specialmente per l’edizione a tema dialoghi della Giornata Europea della Cultura Ebraica».
Scoperto il testo per puro caso in una libreria, e letto per la prima volta davanti a un pubblico nel 1998, per la trasmissione di Raitre Uomini e Profeti, l’attrice lo ripropone già nel 2002 in una versione scenica, nel Teatro Gobetti di Torino.
Da allora, lo rielabora e rimette in scena quasi ogni anno, in ambienti diversi, rendendolo il suo “cavallo di battaglia”. E, ad ogni replica, la struttura della messinscena si evolve sempre di più.
IL LIBRO
Il breve testo – due pagine fitte fronte e retro – è comparso per la prima volta nel 1946, per la vigilia di Yom Kippur, sulla rivista yiddish di Buenos Aires Di Idishe tsayṭung: Diario Israelita.
Con l’espediente del manoscritto ritrovato, Zvi Kolitz propone una testimonianza fittizia – ma pur sempre realistica – di quanto accadde nel ghetto di Varsavia dopo l’arrivo dei nazisti, con il presupposto di far rispondere Dio delle atrocità perpetuate nei confronti del suo ‘popolo eletto’. Una fulminea e provocatoria arringa «vera come solo la finzione può esserlo», come la descrive il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas.
Finzione che gli riesce fin troppo bene: il testo, che si finge un brandello di carta ritrovato tra le rovine del ghetto arrotolato in una bottiglia, assume vita propria e viene ripubblicato diverse volte come testimonianza originale del tale Yossl Rakover, ebreo morto a Varsavia nel ’43, nonostante l’autore non abbia mai tenuto celata la propria identità.
I lettori non riescono a perdonare a Zvi Kolitz (1912 – 2002) non solo di essere (al tempo) ancora vivo, ma soprattutto di non essere un testimone diretto, ma bensì un ebreo lituano che – essendo scappato in Palestina prima dello scoppio della guerra – la vita nei ghetti non l’ha mai vissuta.
Seguendo il procedimento già codificato del ‘processo a Dio’ (che userà poi anche da Elie Wiesel nel suo Processo di Shamgorod), il monologo si configura a partire dal presupposto in cui il fedele rispetta il patto del popolo d’Israele con Dio, ma si trova davanti una controparte inadempiente; e con linguaggio lirico-allusivo, l’autore disvela uno dei tratti unici dell’ebraismo: il rapporto diretto tra ebreo e Dio.
L’attrice spiega: «Yossl sfida Dio, vuole costringerlo a dire perché, perché mai un uomo come lui – che non riconosce in sé peccati né colpe – venga sottoposto a una sofferenza tanto immensa, e venga così duramente messo alla prova. Questo mi ricorda Ivan, de I fratelli Karamazov di Dostoevskij, il quale si chiede quali colpe possano mai avere i bambini di fronte a Dio, per meritarsi gli atroci castighi a cui vengono sottoposti».
Come espone il filosofo chassidico Martin Buber ne L’Io e il Tu e La vita come dialogo, il dialogo non si fa a partire da una strumentalizzazione dell’altro ma da un’unione con esso, la quale mette in moto un cambiamento in entrambi gli attori del dialogo: «questa è, secondo me, l’essenza dell’ebraismo: siamo in continuo cambiamento – asserisce Marina Bassani – così il dialogo con Dio si fa presa di posizione, presa di responsabilità, capacità di decisione e di cambiamento. D’altronde, già in Bereshit, quando Adamo si nasconde davanti a Dio, è sempre un problema di responsabilità» (Genesi: «il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”»).
Il narratore dunque, benché in un primo momento chieda retoricamente a Dio la ragione del dolore nel mondo, si allontana subito dal ruolo di vittima: non si aspetta una risposta, o meglio, se la dà da solo.
Kolitz propone una rilettura del rapporto causa-effetto e colpa-penitenza in relazione ai fatti dell’Olocausto; non si tratterebbe più di una punizione per qualche grave colpa commessa dal popolo ebraico, ma del nascondimento di Dio, concetto molto radicato nella cultura ebraica: «Dio ha nascosto il proprio volto al mondo e in questo modo ha consegnato gli uomini ai loro istinti selvaggi».
Allora, quella che pare la negligenza di Dio sarebbe in realtà una spinta alla responsabilizzazione dell’uomo: come spiega Lévinas, Dio ha creato un uomo capace di rispondergli e di affrontarlo, e così la sofferenza delle vittime in un mondo di disordine rivela un Dio esigente che si concretizza «attraverso l’assenza» e che «rinunciando a ogni manifestazione pietosa, fa appello alla piena maturità dell’uomo totalmente responsabile»: Dio sceglie di «nascondersi il volto per esigere dall’uomo – sovrumanamente – tutto».
Rakover non si rivolge tuttavia a Dio a tu per tu, ma davanti a un pubblico, come per mostrare ai lettori la via: nel chiedere agli uomini di comprendere che dal male non si può trarre una prova dell’inesistenza di Dio, il narratore riafferma la propria emunah incondizionata e proclama il proprio livellamento con Dio stesso. Non è più un debitore che si relaziona a una divinità benefattrice, ma un uomo che si rivolge da pari a pari a un Dio che a lungo, forse addirittura – si spinge ad alludere – troppo a lungo, ha nascosto il proprio volto al mondo.
«Avendo l’uomo conquistato la libertà, Dio, quasi impotente, ha chiuso gli occhi e nascosto il volto» dice l’attrice, la quale vanta – oltre al diploma di recitazione dell’accademia dei Filodrammatici – una laurea in Storia e Filosofia.
Nella sua fede imperturbabile, Yossl Rakover è una sorta di nuovo Giobbe, che nessuna sofferenza potrà allontanare da Dio: «fai di tutto perché io non creda in Te. […] Ma se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e varo posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!».
Allo stesso modo, l’eroe del Libro di Giobbe dei Ketuvìm, dimostratosi fervente fedele nel benessere, fu messo alla prova da Satàn e dimostrò di mantenere viva la propria emunah anche nella disgrazia.
«È un testo molto attuale – ci racconta Bassani durante l’intervista – in cui da un lato Kolitz mette in conto che ci sono persone che durante la Shoah hanno smesso di credere in Dio, dall’altro si racconta l’ostinazione di chi, nonostante e in ragione di quanto stava accadendo, ha rafforzato la propria fede». Altri, come lui, hanno provato lo stesso sentimento: lo vediamo anche nella lettera a Dio di Edith Bruck ne Il Pane Quotidiano, in cui la scrittrice riafferma con fermezza la propria fede pur ricordando che fu proprio sua madre, religiosa e praticante, la prima a sparire nei campi di concentramento.
Così Kolitz espone il significato che lui stesso trova nel “grande ma disgraziato onore di essere ebreo”: «ritengo che essere ebreo significhi essere un combattente, uno che nuota senza tregua contro una sordida, malvagia corrente umana. […] Ora so che sei il mio Dio, poiché di certo non sei, no, non puoi essere il Dio di quanti, con le loro azioni, hanno dato la prova più atroce di empietà in armi».
La sofferenza del giusto per una giustizia senza trionfo, come spiega Lévinas, è vissuta concretamente come ebraismo: Dio si configura così come il Dio degli ebrei più che di chiunque altro, e il Dio ‘lontano’ che nasconde il volto viene in realtà da dentro, creando un’intimità tra uomo e Dio. È in sostanza un Dio personale.
E se Rakover inizialmente chiede «che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo?» già conosce la risposta, e nell’epilogo finale dimostra la fermezza e inconfutabilità della propria fede, affermando con sicurezza: «presto (Dio) mostrerà di nuovo il proprio volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente». Rakover domanda, ma non mette in dubbio: è un processo di riaffermazione, nel tentativo maieutico di tirar fuori queste risposte al pubblico di lettori.
LA MESSINSCENA
Intrecciate alle righe di Zvi Kolitz, Marina Bassani propone alcune forti righe dalla poesia Fuga di Morte di Paul Celan, poeta ebreo internato nei campi di concentramento, sopravvissuto ma poi suicidatosi nella Senna:
«Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti.
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte».
L’attrice, nelle vesti di un uomo – Yossl – tiene in mano un rotolo: è il suo testamento ritrovato tra le rovine.
Lo sfondo della messinscena è inghiottito da un telo nero, con uno squarcio alla Lucio Fontana: uno scorcio sull’abisso di un mondo in cui Dio è assente e l’umanità si è fatta bestialità. Dietro, si intravede una violinista, che suona una musica malinconica. Il buio è illuminato da una speranza fioca, un lieve barlume.
La versione attuale include anche un breve prologo audiovisivo della videomaker Marta Zen, nel quale l’artista mostra – in netto contrasto con il racconto delle atrocità inflitte agli ebrei – immagini brillanti della vita dell’alta società tedesca, la quale non vuole sapere quanto accade nei campi e sceglie l’indifferenza: balli, giradischi, frigoriferi moderni, abiti sfarzosi e sfilate. Il corto, che contiene anche riferimenti all’idea di “razza inferiore” mostrando scimmie che imparano a leggere e conigli, si conclude con l’incendio di una mongolfiera, che riecheggia nell’incendio finale del rifugio di Yossl da parte delle guardie naziste.
«“Credo nel sole, anche quando non splende; credo nell’amore, anche quando non lo sento; credo in Dio, anche quando tace” (Scritta sul muro di una cantina di Colonia, dove alcuni ebrei si nascosero per tutta la durata della guerra)»
Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio.