di Fiona Diwan
Parla l’israeliano Dan Bahat grande archeologo-star
A Gerusalemme, le memorie del sottosuolo non tacciono. Litigano, gridano, si accapigliano, si guardano in cagnesco, le loro voci si rincorrono lungo i sentieri scavati dagli archeologi e illuminati da luci al led o da torce artigianali di chi scava alla ricerca del passato. Sempre di più, nel ventre di Gerusalemme si combatte una guerra senza esclusione di colpi (di piccone), una sfida all’ultimo capitello, una battaglia all’ultimo cunicolo, coccio o reperto archeologico sepolti nelle viscere di questa città le cui stratificazioni fanno impallidire persino quelle vestigia di Romolo e Remo che bloccano senza sosta i lavori della metropolitana di Roma. Le scoperte archeologiche sotto Gerusalemme spono una questione spinosa da sempre, e finiscono per con il coinvolgere non solo gli studiosi ma anche la politica e l’opinione pubblica. Sotto l’Har haBait (il Monte del Tempio) vibrano le vanghe. Sotto l’Haram al-Sharif (il Nobile Santuario), fremoni i picconi. Con gli archeologi che si fanno i dispetti gli uni con gli altri a seconda di qual è il loro orientamento politico o ideologico, arabi o israeliani, di destra o di sinistra, laici, religiosi, secolari, ortodossi, mistici o pasdaran, facenti parte o meno di quel certo clan o di quello rivale…
Perché nella città santa, da secoli, anche gli scavi inaspriscono vecchie e nuove tensioni, alimentano la conflittualità interna e inalberano vittorie e sconfitte non meno cocenti di quelle che avvengono alla luce del sole. Non basta che vengano svelati antichi tesori. Qui, ogni giorno, la paura è che ogni nuovo reperto o “coccio“ possa riscrivere la storia pro domo dell’una o dell’altra parte.
Mormorano da là sotto le voci del passato. Colonne e capitelli scaricati lontano dal luogo dove sono stati rinvenuti, monete antiche buttate in mezzo al Neghev, frammenti di fregi ripescati nel lago di Tiberiade, pezzi di architrave in pietra scaraventati chissà dove affinchè se ne perdano le tracce e sia impossibile ricostruirne la collocazione originaria. Insomma, non c’è pace neppure per le pietre in questo angolo celeste e terreno, luminoso e oscuro, del mondo. Perché qui politica, religione e archeologia sono sempre state intrecciate, in un abbraccio a volte mortale.
Si scava e si scava, ogni archeologo segue una pista, una storia, una traccia, un’evidenza. Lo sa benissimo anche Dan Bahat, 80 anni, l’archeologo-star che fu braccio destro di Ygal Yadin a Masada, lo studioso a cui dobbiamo la scoperta e lo scavo del Tunnel sotto il Kotel, 25 anni fa, quello che oggi tutti i visitatori fanno la fila per visitare. Dan Bahat sa quanto è difficile lavorare qui, il difficile equilibrio da stabilire con la popolazione araba, con i colleghi del Waqf, con gli altri archeologi israeliani (lo racconterà personalmente a Milano, in esclusiva per il pubblico di Kesher, con una eccezionale conferenza il 15 marzo, alle ore 17.00, Aula Magna Benatoff). Quali allora le scoperte più recenti e controverse? Dov’è che finisce l’approccio scientifico alla storia e dove inizia la strumentalizzazione politica? Si può scavare con la Bibbia alla mano? Si può dissotterrare un passato sacro senza offendere altrettante sacre credenze? «Tutto è difficile a Gerusalemme, per questo molti archeologi israeliani, esasperati dal conflitto, vorrebbero liberarsi da questa pietra della discordia, rinunciare a Gerusalemme, a questo cumulo di pietre troppo insanguinato e gravido di morte; archeologi soprattutto laici, che credono che, in fondo, rivendicare e cercare reperti biblici per noi è oggi come se gli antichi e redivivi Gebusei o Cananei rivendicassero una resurrezione e legittimazione fuori dal tempo, colpevolmente immemori delle vicissitudini storiche che ne hanno succeduto la presenza in antico», spiega Dan Bahat.
Perché allora, alla fine, una vanga conficcata a Gerusalemme è come il famoso battito d’ali di una farfalla giapponese che farà crollare la borsa di Wall Street?