Nomi da dimenticare. La polemica sugli eponimi nazisti

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di Daniela Ovadia

eponimi nazistiLa recente campagna (QUI) promossa dalla Comunità di Roma con il supporto del Rettore della Sapienza Eugenio Gaudio per abolire gli eponimi nazisti – ovvero per evitare che alcune malattie portino il nome dello scienziato o medico nazista che le ha studiate con esperimenti condotti su prigionieri politici, minorati mentali o ebrei – mi ha ricordato un fatto avvenuto durante il corso di fisiologia, quando ancora ero all’università.

Il nostro testo conteneva un capitolo dedicato ai limiti estremi di sopportazione dell’organismo umano: la pressione più elevata alla quale si può essere esposti, la temperatura più alta, quella più bassa… Il professore ci chiese di stracciare quelle pagine dal libro: «Sappiamo queste cose perché scienziati criminali nazisti condussero ricerche sui prigionieri dei campi di sterminio ma la comunità scientifica ha deciso di far finta di non saperlo: non possiamo usare le conoscenze che ci vengono da studi non etici».

Ne seguì una interessante discussione con alcuni compagni: in altri testi (non nel nostro) gli stessi dati erano riportati ma era anche raccontata la storia della loro scoperta. Per alcuni di loro era assurdo far finta di non conoscere alcuni dati sul corpo umano che avrebbero potuto aiutarci, un giorno, a salvare qualche vita. Anch’io non riuscii, all’epoca, a farmi un’opinione definitiva in merito, perché in fondo utilizzare queste conoscenze e raccontare la loro storia mi sembrava il modo migliore per dare un senso alla sofferenza di chi era stato sottoposto a torture.

La discussione sugli eponimi indegni mi pare contenere lo stesso intrinseco dilemma che ci ponemmo all’epoca da aspiranti medici: cancellare il nome degli scienziati nazisti e dare a queste malattie un eponimo diverso significa anche cancellare la memoria dei crimini commessi. D’altro canto dare il nome di uno scienziato alla sua scoperta è il modo più classico per onorarlo, e preservare gli eponimi nazisti può mandare il messaggio sbagliato, ovvero che preferiamo ricordare la loro capacità di ricercatori piuttosto che la loro mancanza di scrupoli e umanità.

La questione degli eponimi non è quindi nuova: ricorre periodicamente sulle riviste mediche da decenni. Uno degli ultimi articoli in merito è stato pubblicato nel gennaio di quest’anno sul Journal of Clinical Neuroscience e ne invoca l’abolizione. In precedenza, però, c’è chi come Matthew Fox, un radiologo israeliano, ha lanciato una campagna di senso opposto: mantenere gli eponimi rendendo obbligatorio, nelle facoltà di medicina, lo studio della loro storia.

Foto esposta alla mostra La liberazione dei campi nazisti al complesso del Vittoriano a Roma - DA/PER ANSAMED
Foto esposta alla mostra La liberazione dei campi nazisti al complesso del Vittoriano a Roma – DA/PER ANSAMED

La verità è che benché gli esperimenti medici dei nazisti abbiano raggiunto punte estreme di crudeltà nella storia della medicina, non sono l’unico esempio di ricerca non etica dei cui risultati continuiamo a beneficiare ancora oggi.

Edward Jenner, lo scopritore del vaccino antivaioloso, sperimentò l’efficacia della sua teoria inoculando l’agente infettivo del vaiolo, potenzialmente mortale, nel figlio del suo giardiniere, di soli otto anni: non solo il bambino era ovviamente inconsapevole, così come i suoi genitori, ma Jenner non aveva alcuna certezza di poterlo proteggere dalla malattia. Nella mentalità di un medico della fine del XVIII secolo, però, la vita di un qualsiasi bambino di campagna contava meno di niente a fronte dei possibili benefici.

L’idea che esista un modo etico di condurre le ricerche mediche che coinvolgono gli esseri umani nasce proprio in seguito alla Seconda guerra mondiale, dopo il processo di Norimberga che vide i medici nazisti alla sbarra. Esterrefatti dalla crudeltà dimostrata da quelli che erano all’epoca considerati i colleghi più preparati e brillanti, i medici stabilirono norme che ancora oggi governano il modo con cui la scienza si avvicina alla sperimentazione umana. Norme che però da sole non bastano, come dimostra il fatto che gli Stati Uniti sono stati teatro di alcuni tra gli esperimenti meno etici che la storia della medicina ricordi, e ciò ben dopo Norimberga, tra gli anni ’50 e i ’60. Tra questi il famigerato esperimento sulla sifilide condotto a Tuskegee, nell’Alabama, dallo US Public Health Service (cioè in pratica dal governo USA), tra gli anni ’30 e il 1972. Circa 500 uomini appartenenti alla comunità afroamericana locale furono infettati di nascosto col batterio della sifilide: non sapendo di essere portatori della malattia, diventarono a loro volta fonte di contagio per mogli e figli. Quando, nel 1940, si scoprì che la penicillina poteva curare la malattia, gli sperimentatori decisero di non somministrarla agli ignari pazienti di Tuskagee, perché volevano poter osservare l’evoluzione naturale della malattia fino al decesso.

In sostanza, sebbene dire “aboliamo gli eponimi nazisti” può sembrare una buona idea, quando si conoscono i tortuosi meccanismi attraverso i quali la medicina moderna è arrivata a riconoscere agli esseri umani alcuni importanti diritti anche quando sono oggetti di sperimentazione, cancellare completamente il ricordo di alcune efferatezze potrebbe sortire l’effetto opposto.

Per quel che mi riguarda, oscillo tra un estremo e l’altro. Forse vorrei veder aboliti tutti gli eponimi in medicina, anche perché sono il retaggio di un modo paternalista di comunicare col paziente: anche quando sono riferiti a personaggi di tutto rispetto, sono complicati da ricordare, suonano minacciosi e rendono difficile, per il malato, comprendere esattamente di cosa soffre. Talvolta, tra l’altro, possono essere diversi da Paese a Paese, perché esistono sciovinismi anche in medicina e ogni nazione rivendica per sé la primogenitura delle scoperte scientifiche, se appena ne ha la possibilità.

D’altro canto vorrei che la storia della medicina, e in particolare quella della ricerca scientifica e delle sue implicazioni etiche, facesse parte del bagaglio di conoscenze degli aspiranti medici e ricercatori ma anche della gente comune. A quel punto forse potremo davvero abolire gli eponimi nazisti, oppure conservarli con una funzione diversa: quella di perpetuare il ricordo di ciò che non deve più accadere.