Giovedì 4 maggio alle ore 18 si è tenuto presso il Palazzo delle Stelline a Milano il Seminario organizzato dal centro studi Geopolitica.info sul tema: “Italia e Israele: i nuovi equilibri nel Medio Oriente”.
Sono intervenuti: Stefano Maullu, Eurodeputato, Membro del gruppo di lavoro Euromediterraneo del Partito Popolare Europeo, Maurizio Bernardo, Presidente della Commissione Finanze della Camera dei Deputati, Amit Zarouk Portavoce dell’Ambasciata di Israele in Italia, Raffaele Besso Presidente della Comunità Ebraica di Milano, Enrico Mairov, Promotore dell’accordo di cooperazione sanitaria Italia-Israele, Enrico Pianetta, Senatore, già Presidente dell’Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele, e Vittorio Pesato, Consigliere Regione Lombardia.
Riportiamo qui di seguito l’intervento di Raffaele Besso, co-presidente della Comunità ebraica di Milano.
“Sono, questi, anni nei quali assistiamo a profondi cambiamenti geo-politici che non potranno non lasciare conseguenze nella vita di noi tutti. Per il Medio Oriente non sarà diverso.
Approfittando della politica apatica di Obama, la Russia è non solo tornata ad essere presente in Siria, sua tradizionale alleata fin dai tempi dell’Unione Sovietica, ma ha scalzato l’America dal ruolo di grande amica dell’Egitto, recuperando gli antichi legami che il PCUS aveva con Nasser.
La Turchia sembra barcamenarsi in una politica ondivaga, non più così vicina agli USA come era nei primi anni della presidenza Obama; è schierata di fatto con l’Iran anche se Erdogan vorrebbe abbattere quell’Assad che è invece indispensabile per la politica espansionistica di Khamenei (nella realtà, come vedremo, sia Erdogan, sia Khamenei aspirano a costituire un loro califfato); e la Turchia è tornata a collaborare con Putin dopo scontri, anche militari, che il capo del Cremlino non ha certamente dimenticato.
Trump ha riportato gli USA ad una politica di stretta collaborazione con Israele, più consona ai tradizionali rapporti di amicizia tra i due popoli, e sta pure rivedendo quelli che, secondo lui, devono essere i rapporti dell’America coi tanti satrapi del Medio Oriente, dal re saudita agli ayatollah iraniani oltre che col generale egiziano al Sisi.
Non certo minore importanza ha quel nuovo rapporto di collaborazione che Israele ha instaurato con molti paesi arabi, da sempre acerrimi nemici dello stato ebraico che non potrebbe sorgere su terre che sono state dominate, in passato, dai musulmani dell’impero Ottomano. Così vuole il Corano; ma tali imperativi sembrano passare oggi in secondo piano di fronte al pericolo sciita che i ricchi stati sunniti non sono in grado di contrastare da soli; di qui quel rapporto diretto che, non sempre alla luce del sole, si è instaurato tra Israele e Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati.
Questo rapporto appare solido anche con al Sisi che ha bisogno della collaborazione con lo stato ebraico per difendere il proprio territorio dall’ISIS e dai Fratelli Musulmani, e lo è pure col re di Giordania che, senza la collaborazione degli israeliani, sarebbe già stato scalzato dai fondamentalisti islamici. In effetti questa relazione c’è sempre stata anche coi militari turchi, persino nel periodo nel quale le relazioni diplomatiche tra Israele e Turchia si erano interrotte, grazie a rapporti personali di lunga data.
Tra le novità geo-politiche degli ultimi anni, grande significato e importanza hanno anche le relazioni diplomatiche che Israele ha allacciato con numerose nazioni africane, con nazioni islamiche come Singapore e Uzbekistan e, soprattutto, con la Cina; si può ben dire che Israele ha oggi aperto collaborazioni commerciali, tecnologiche e militari coi due giganti asiatici, Cina ed India, che, insieme alla buona intesa tra Netanyahu e Putin, rendono Israele meno dipendente dagli umori incostanti degli USA (che tuttavia rimangono il primo alleato) e dalla sempre più distante Europa.
Se tuttavia volgiamo lo sguardo indietro nel tempo, e pensiamo a cosa è successo in Medio Oriente negli ultimi 100 anni, dobbiamo fare anche diverse riflessioni, almeno per quanto riguarda lo stato ebraico.
Giusto 100 anni fa, nel 1917, le truppe inglesi entravano in Gerusalemme, e l’impero britannico occupava parte dell’impero ottomano sconfitto dopo 623 anni di esistenza. Nello stesso anno 1917, con la dichiarazione Balfour veniva promesso agli ebrei quel focolare ebraico che avrebbe, secondo la successiva decisione della Società delle Nazioni, (e, non va dimenticato, con l’accordo del leader arabo Feisal) ratificato a Sanremo prima, e poi nel 1937 grazie alla Commissione Peel, dovuto occupare tutta quella terra che allora era chiamata Palestina, comprendente non solo Israele, i territori contesi (Giudea, Samaria) e Gaza, ma anche l’attuale Giordania; ma l’Inghilterra avrebbe poi donato a Feisal un regno comprendente l’80% di tutta quell’area.
Erano, quelle terre, in gran parte disabitate, desertiche, anche malariche, con pochi abitanti concentrati in piccole cittadine. Gerusalemme, e non solo Gerusalemme, era, giova qui ricordarlo, già allora abitata da una maggioranza ebraica.
Ebbene, quanti e di quale importanza sono stati i cambiamenti geo-politici in questi 100 anni, da quel lontano 1917? Ricordiamo qui solo la seconda guerra mondiale, la fine dell’Impero britannico, l’ascesa e la successiva fine dell’Unione Sovietica, la stessa fine del maoismo (anche se quella Cina era ben poco influente in Medio Oriente), e le tante guerre che Israele ha dovuto combattere contro gli eserciti arabi, predominanti sulla carta, ma sempre usciti sconfitti nelle guerre che loro stessi avevano scatenato.
Ebbene, che cosa è veramente cambiato per Israele in tutti questi anni di fronte a simili sconvolgimenti politici?
Gli inglesi decisero che, accanto allo stato ebraico, nascesse quel regno di Transgiornia che era, essenzialmente, uno stato palestinese (nel senso che la sua popolazione era, in maggioranza, composta da arabi palestinesi). Gli ebrei, pur controvoglia, dovettero fare buon viso a cattivo gioco.
Quando nel 1947 le Nazioni Unite divisero il restante 20% del territorio che avrebbe dovuto costituire lo stato ebraico in due, con l’intenzione di far nascere un ulteriore stato arabo accanto allo stato di Israele, gli ebrei ancora una volta accettarono. Ma furono, come è ben noto, tutti gli stati arabi che si opposero.
La decisione delle Nazioni Unite di far nascere due stati su quel 20% del territorio che avrebbe dovuto essere lo stato degli ebrei rimase, tuttavia, una pietra miliare alla quale tutti i cosiddetti grandi della terra si sono sempre uniformati: dovevano esserci due stati, Israele doveva stare accanto ad uno stato arabo, il 23esimo, che, solo dopo il ’67 iniziò poco per volta a chiamarsi Palestina, anche se, con questo termine, in un passato recente, veniva chiamata la nascente nazione ebraica. E la scelta di tale nome voluta da Arafat si spiega con la volontà di conquista delle terre altrui e la cancellazione della loro storia precedente come accade fin dai tempi di Maometto, ogniqualvolta i musulmani hanno conquistato terre che non erano musulmane.
Di nuovo, dopo la vittoria nella guerra dei 6 giorni, i governanti israeliani accettarono di cedere una parte del territorio, e ripetutamente offrirono la possibilità di far nascere un loro stato agli arabi (ricordiamo solo i 3 famosi no di Khartoum: no a trattative, no al riconoscimento, no alla pace con Israele), e lo stesso sarebbe poi avvenuto con le estremamente generose offerte di Barak e di Olmert, ma sempre Arafat prima, Abu Mazen dopo, hanno detto no.
Bisogna allora chiedersi il perché di questi ripetuti rifiuti da parte araba.
Sembra evidente se solo si pensa a quanto prescrive il Corano: dove c’è stato dominio musulmano, la terra deve essere musulmana per sempre.
E forse, a questo punto, sarà opportuno aggiungere anche una riflessione sulle tradizioni degli arabi: non è mai esistito uno stato nella loro storia, a parte l’Egitto che precede, come stato, la conquista musulmana, ma ci sono le tribù e il califfato (a suo tempo l’impero Ottomano faceva appunto le funzioni del califfato). Il senso di appartenenza alla tribù è sempre fortissimo, e l’idea del califfato è ben presente non solo nella mente di Al Baghdadi, ma anche di Erdogan, di Khamenei e forse anche dei sauditi.
Non mancano le dimostrazioni concrete che, anche per gli attuali dirigenti arabo-palestinesi, siano essi di Fatah o di Hamas, le terre che eventualmente riusciranno a sottrarre agli ebrei serviranno da trampolini di lancio per ulteriori conquiste, proprio per quella volontà di “cacciare gli ebrei a mare” che Nasser ieri, Hamas oggi e, magari solo quando si esprimono in arabo, anche tanti dirigenti di Fatah non smettono di ripetere. Sono loro i primi a non volere i due stati.
In conclusione, quindi, dobbiamo chiederci se questa ricerca di una soluzione a due stati, sopravvissuta a tutti gli enormi sovvertimenti storici degli ultimi 100 anni, potrà sopravvivere anche a questi nuovi, odierni cambiamenti politici di ampiezza planetaria.
Ed é giusto che sopravviva? Bisogna infatti guardare in faccia quelle realtà troppo spesso rifiutate:
- gli ebrei non sono “coloni” di terre che hanno abitato per migliaia di anni, tranne il breve periodo di occupazione giordana che non fu mai riconosciuta da nessuno stato;
- gli arabi non vogliono condividere quelle terre con gli ebrei perché la loro Palestina, che in tutte le loro carte si estende dal Giordano al mare, e dai confini con Libano e Siria fino a Eilat, dovrà essere judenfrei (loro espressa volontà, non a caso di hitleriana memoria);
- e, infine, gli arabi hanno invaso nel XX secolo una terra alla quale non si erano mai interessati, soprattutto perché gli ebrei avevano creato occasioni di lavoro per tutti, ma in seguito anche perché non volevano che finisse nelle mani degli ebrei che, per loro, sono, e devono restare, solo dei dhimmi (gli infedeli seguaci di religioni monoteistiche che, non essendo musulmani, sono tollerati purché paghino una speciale tassa, Jizya, che corrisponde la noto pizzo riscosso nel nostro meridione dalla mafia)”.