di Nathan Greppi
Un pomeriggio intenso quello di giovedì 6 febbraio, in cui è stato proiettato all’Umanitaria il documentario Pentcho: esso racconta la storia dell’omonima imbarcazione che, nel 1940, partì dal porto di Bratislava con a bordo 520 ebrei in fuga dall’Europa. Durante il viaggio, che lungo il Danubio li ha portati fino al Mar Nero e da lì alla Palestina Mandataria, hanno dovuto affrontare numerose difficoltà, sia per le condizioni critiche in cui vivevano sia per l’ostilità dei Paesi che attraversavano lungo il fiume. Durante il tragitto, dovettero anche tornare in Italia dove furono internati nel Campo di Ferramonti, in Calabria.
Il regista, Stefano Cattini, raccoglie le testimonianze dei testimoni ancora in vita di quel viaggio e dei loro discendenti, in un viaggio che lo porta dall’Italia a Israele, dove incontra numerosi testimoni che parlano in almeno 4 lingue diverse.
Il dibattito
Al termine della proiezione, si è tenuto un dibattito moderato da Davide Romano, giornalista di Repubblica e già assessore alla cultura della Comunità Ebraica di Milano, che in merito al film ha detto che “non è solo una storia triste, ma è raccontato con sensibilità e umorismo”. Il primo dei relatori a parlare è stato Cattini, che ha spiegato che con le persone incontrate “ho cercato di instaurare anche una relazione di amicizia, e questo ci permette di uscire dallo schema puramente storico”. Ha citato una frase secondo cui “la storia comincia quando non ci sono più persone vive a cui chiedere” motivo per cui “per me fare questo documentario voleva dire andare a cercare persone vive, che fossero collegate al Pentcho”.
Dopo di lui ha preso la parola lo storico Oscar Marcheggiani, che ha dichiarato: “Bisogna ricordare che in Italia le Leggi Razziali erano state una sorpresa per la comunità ebraica, che aveva fatto tanti sforzi per integrarsi, aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, e c’erano anche stati Primi Ministri di origini ebraiche (Alessandro Fortis, Sidney Sonnino e Luigi Luzzatti, ndr). In tutta Europa avvennero cose simili, ma l’Italia, rispetto agli altri Paesi, trovò un riscatto rispetto alle Leggi Razziali. Non dimentichiamo che Paesi come l’Inghilterra e l’America respingevano le navi cariche di profughi ebrei, che venivano rimandati a farsi massacrare. In Italia invece c’è stata un’accoglienza dopo l’8 settembre, e in seguito collaborò con i superstiti che volevano andare nella Terra d’Israele, a partire dall’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi”.
Laura Brazzo, responsabile dell’Archivio Storico del CDEC, ha voluto sottolineare: “I 520 ebrei profughi del Pentcho da Rodi furono trasportati in Italia e rinchiusi in un campo di concentramento, quello di Ferramonti di Tarsia. All’epoca dell’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno del 1940, erano ancora presenti nel nostro Paese circa 3800 ebrei stranieri che non erano riusciti ad andarsene (come avrebbero dovuto fare dopo l’emanazione delle leggi razziali ndr) per varie ragioni – perché senza visti, senza risorse. Sulla base della nota del Ministero degli Esteri sugli ebrei stranieri di Paesi nemici o di ‘Stati che fanno politica razziale’, la gran parte di essi fu internata in campi di concentramento o costretta a risiedere in stato di non-libertà in località di internamento (sparse prevalentemente lungo l’Italia centrale e meridionale). Quando il campo di Ferramonti fu liberato, il 10 settembre 1943, molti degli internati rimasero a Ferramonti, ma da uomini ormai liberi”.