di Nathan Greppi
In questi mesi, al Memoriale della Shoah di Parigi (nella foto), è in corso la mostra intitolata Shoah et bande dessinée (Shoah e i fumetti), che racconta come si sono relazionati questi due elementi negli anni, con numerose tavole originali e un esaustivo apparato critico.
Negli anni Ottanta, quando venne pubblicato il romanzo a fumetti Maus, di Art Spiegelman, molti critici ed esperti non sapevano come inquadrare l’opera, soprattutto per come raccontava la Shoah. Gli ebrei raffigurati come topi sembravano riprendere l’iconografia nazista, con la visione deformante e l’equivalenza “ebrei – razza indegna (Gegenrasse) – topi” su cui il Reich aveva fondato tutta una tradizione iconografica, che Spiegelman aveva certo rovesciato ma in qualche modo anche perpetuato.
Oggi, dopo più di trent’anni, i fumetti che hanno trattato l’Olocausto e il nazismo sono aumentati notevolmente, tanto da ispirare una mostra tutta dedicata a questa particolare produzione artistica.
Un po’ di storia
Per la verità, Maus non è stato il primo fumetto ad aver trattato un tema tanto delicato, e neppure il primo a farlo usando dei topi: il primo fu infatti, nel 1942, Horst Rosenthal, un internato nel campo di concentramento francese di Gurs, che durante la sua prigionia disegnò e scrisse un albo intitolato Mickey au camp de Gurs (Topolino a Gurs), in cui il celebre protagonista dei fumetti Disney diventa un internato nel campo di concentramento. Il giovane artista elabora in questo modo la propria tragica prigionia e intrattiene, con le sue storie, i bambini del campo. Horst, fuggito dalla Germania a causa delle persecuzioni antiebraiche nel 1933, fu imprigionato mentre chiedeva asilo politico e infine deportato e ucciso a Auschwitz. La sua opera è però stata recuperata e pubblicata in un volume curato da Joël Kotek e Didier Pasamonik, poi tradotta tanto che, nel gennaio 2015, anche il sito italiano Fumettologica gli ha dedicato un articolo.
Secondo i curatori della sua opera, Horst Rosenthal con “la sua appropriazione dell’iconografia disneyana ne fa un esempio straziante di quella leggerezza che riuscì, nonostante tutto, ad accompagnare le giornate degli internati, e che rende Mickey au camp de Gurs una lezione di umanità la cui naturalezza suona persino sconvolgente”. Scrive Matteo Stefanelli su Fumettologica: “L’idea di scegliere uno specifico topo – quello di Walt Disney – per raccontare la condizione estrema degli ebrei, in Rosenthal, significò perciò indicare un messaggio tutt’altro che pacifico nel 1942: se l’icona del cosmopolitismo è un simbolo del popolo ebraico, la sua prigionia appare come la privazione di libertà che appartengono a qualsiasi ‘cittadino del mondo’. Topolino non rappresenta una specifica comunità topesca, ma tutti gli uomini moderni, e il dramma di venire ridotti allo stato di reietti, senza alcun ragionevole motivo”.
Sempre in Francia, nel 1944 fu la volta di Victor Dancette ed Edmond-François Calvo, che nel loro La Bete est morte! trattarono anch’essi la Shoah attraverso le avventure di animali antropomorfi. Famosa all’epoca fu anche la copertina di un numero di Capitan America del 1941, dove il supereroe della Marvel prende a pugni Hitler. Tuttavia, per molto tempo furono poche le opere che, oltre a parlare del nazismo e dei campi, fecero riferimenti diretti agli ebrei. Per questo occorre aspettare fino al 1952, quando la rivista franco-belga Spirou pubblicò Gli Eroi di Budapest di Jean-Michel Charlier e Solo contro la barbarie di Jean Graton, due racconti in quattro pagine ciascuno ed entrambi incentrati sulla deportazione degli ebrei ungheresi ad Auschwitz.
Nel mondo anglosassone, invece, si dovette aspettare a lungo prima che venisse pubblicata una graphic novel interamente dedicata alla Shoah. Fino al 1980, quando il primo capitolo di Maus venne pubblicato sulla rivista americana Raw, fondata dallo stesso Spiegelman, il quale in seguito raccolse tutti i capitoli in due volumi, usciti rispettivamente nel 1986 e nel 1991. L’opera gli valse numerosi premi a livello internazionale, tra cui il Premio Pulitzer, ma soprattutto cambiò almeno in parte l’idea che i fumetti fossero un’arte di serie B, ispirando in seguito numerosi fumettisti autoriali come Marjane Satrapi e Riad Sattouf.
Non potevano poi mancare sull’argomento opere di autori israeliani: Rutu Modan, ad esempio, ha scritto una graphic novel intitolata The Property, in cui un’anziana signora torna in Polonia con la nipote per riavere le proprietà rubategli dai nazisti.
La mostra non ospita solo fumetti legati al nostro genocidio: Varto di Gorune Aprikian, ad esempio, è ambientato nel 1915, e narra la storia di due bambini armeni che cercano di scampare allo sterminio messo in atto dai turchi; Deogratias di Jean-Philippe Stassen, invece, parla del genocidio dei Tutsi avvenuto in Ruanda negli anni Novanta; e infine Manouches di Kkrist Mirror, che ritorna nei lager nazisti ma per parlare del massacro degli zingari (“manouche” in francese vuol dire zingaro).
Tra tutti i casi citati finora ne manca uno molto importante: i supereroi. Nei fumetti della Marvel e della DC Comics, ci sono voluti decenni prima che comparissero riferimenti alla Shoah. Il primo caso esplicito riguarda Magneto, il noto antagonista della serie degli X-Men; il personaggio, il cui vero nome è Eric Lehnsherr, nella storia è un ebreo polacco che da ragazzo finì ad Auschwitz, dove si risvegliarono i suoi poteri paranormali (come si vede già nella prima scena del primo film della saga). Riferimenti al nazismo e ai genocidi appaiono anche nel capolavoro V per Vendetta di Alan Moore, oltre che nel film che ha ispirato.
La mostra prosegue fino al 30 ottobre.
Mémorial de la Shoah, rue Geoffroy l’Asnier 17, Paris
Info: contact@memorialdelashoah.org
Aperto tutti i giorni eccetto il sabato, dalle 10.00 alle 18.00, il giovedì fino alle 22.00.