di Ilaria Ester Ramazzotti
“Ha solo un sogno: rivedere la sua mamma. Il viaggio per raggiungerla lo porterà all’inferno”. Così è scritto sulla copertina del libro “Storia di Sergio”, scritto da Andra e Tatiana Bucci con Alessandra Viola, edito quest’anno da Rizzoli. Così l’editore ha introdotto la storia di Sergio De Simone, bambino ebreo che nel 1944 è richiuso a sei anni ad Auschwitz, da dove uscirà sempre prigioniero per andare a morire ad Amburgo, oggetto di crudeli sperimentazioni mediche.
Il volume è stato presentato il 13 febbraio al Memoriale della Shoah di Milano da Tatiana Bucci e da Mario De Simone, fratello di Sergio e cugino delle autrici. L’incontro, moderato da Massimo Bernardini, ha ripercorso memorie, esperienze, eventi personali e famigliari che da Napoli e Fiume hanno portato i componenti di una famiglia, passando dalla risiera di San Sabba, nei territori delle Germania nazista, fino, per alcuni di loro, a un complicato ritorno a casa.
Andra, Tatiana e Sergio furono internati insieme nel kinderblock, la baracca numero 11 di Auschwitz-Birkenau, dove erano detenuti i bambini usati dal dottor Joseph Mengele e dai medici nazisti per i loro ‘esperimenti scientifici’. Se le due sorelle si salvarono e non furono sottoposte alle crudeli pratiche, Sergio non ritornò mai più e di lui non si seppe più nulla fino agli anni Ottanta.
Il presidente della Fondazione del Memoriale della Shoah Roberto Jarach ha dato il benvenuto ai partecipanti all’incontro, sottolineando “l’importanza e il grande interesse insito nelle testimonianze dirette come quella di Tatiana e Andra Bucci, soprattutto in questo momento particolare in cui molti dei testimoni della Shoah ci stanno lasciando”. “In futuro avremo il Memoriale, avremo i testimoni dei testimoni, proseguirà il compito di istituzioni come la Fondazione del Memoriale, il CDEC e le associazioni come quella dei partigiani, ma mancherà la partecipazione emotiva suscitata della testimonianza diretta”.
Il giornalista Massimo Bernardini ha poi presentato le drammatiche vicende di Andra, Tatiana e Sergio a partire dalla storia prima assolutamente normale dei tre bambini, parlando della normalità di una famiglia italiana che poi negli anni della guerra cade nella tragedia. “La stessa normalità che c’è oggi anche nel piccolo edifico di mattoni rossi alla periferia di Amburgo, quella vecchia scuola nei cui sotterranei morì Sergio insieme ad altri diciannove bambini. Il libro racconta in modo famigliare quella storia terribile. È infatti un testo adatto ai ragazzi che riporta fatti tragici, come i venti bambini trucidati in quel piccolo angolo di Amburgo. Ma è un racconto per ragazzi che non toglie nulla al dramma e che ci porta dentro alla storia di Sergio”.
“Sono un testimone di seconda generazione, nato dopo la guerra – ha esordito Mario De Simone, fratello di Sergio -. Ho ricevuto sulle spalle la storia di un fratello che non ho mai conosciuto. Era nato a Napoli, dove mia madre era andata a vivere dopo aver sposato mio padre, che poi durante la guerra fu richiamato alle armi. Nel settembre ‘43 mia madre prese a un certo punto una decisione sbagliata, poiché da lì a poco Napoli si sarebbe liberata. Invece andò a Fiume, dalla sua famiglia”.
“Fino all’83 sapevo da mia mamma che Sergio fosse vivo da qualche parte, e che un giorno, lei lo diceva sempre, avrebbe bussato alla porta. Delle persecuzioni ho invece sentito parlare di più da mio padre e mia sorella. Ho saputo da mio padre che negli anni ‘40 il Comune di Napoli, per voce del ‘servizio razza’, gli chiese se il loro figliolo Sergio desse segni di ebraicità. Solo mamma Gisella era infatti ebrea. Ho saputo poi di alcuni fatti dalle mie cugine Andra e Tatiana, che ancora portano come se fosse un peso il fatto di non aver potuto salvare Sergio. Finché, nell’83, mia madre è stata chiamata ad Amburgo dal giornalista Günther Schwarberg, che aveva fatto un’inchiesta sui bambini uccisi alla scuola di Bullenhuser Damm e chiesto un processo per quei fatti. Ma mia madre inizialmente buttava via quelle lettere”. Nel corso del suo viaggio ad Amburgo con la moglie, Mario De Simone ha poi ricevuto il certificato di morte di Sergio. Günther Schwarberg era riuscito a dissotterrare dei documenti sepolti dall’ex custode della scuola, che solo in punto di morte gli aveva rivelato il luogo dove scavare, mai svelato prima per la troppa paura.
Bullenhuser Damm si trovava nei pressi del campo di concentramento di Neuengamme, dove venti bambini ebrei di età compresa tra i cinque e i dodici anni, provenienti da Auschwitz, furono mandati da Mengele, richiesti dal collega Heißmeyer. “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti”, disse ai bambini del Kinderblock. Così furono scelti dieci femmine e dieci maschi, tra cui due coppie di fratelli e sorelle. Fra questi c’era anche Sergio De Simone, che non voleva altro che tornare dalla sua mamma. Per mesi il medico delle SS Kurt Heißmeyer si servì di loro come cavie per esperimenti medici, immettendo nei polmoni dei bambini bacilli tubercolotici vivi e poi asportando loro le ghiandole linfatiche. Il 20 aprile del ’45 ai bambini, portati nei sotterranei di Bullenhuser Damm, fecero una iniezione di morfina per farli dormire e li impiccarono a dei ganci sulla parete. Johann Framm, uomo delle SS, si appese con tutto il peso del suo corpo ai bambini, per farli morire.
“Ho saputo solo in seguito che negli anni della guerra tutti sapevano che cosa accadeva ai bambini che portavano a Neuengamme, ma nessuno poi ne parlò”. “Mia madre, a partire dall’83, si è lasciata andare e poi è morta – sottolinea Mario De Simone -. Sembra un romanzo dell’orrore ciò che è accaduto ai bambini, ma questo è accaduto. Il medico di Amburgo ha detto al processo per difendersi di aver fatto un’opera meritoria per la ricerca sulla tubercolosi. Su queste cose non c’è perdono, ma devono servire a prevenire forme di negazionismo e nuove forme di persecuzione”.
“Chi ha fatto scelte negazioniste troverà il modo di contestare cinicamente i fatti, chi ha scelto di non pensare alle ‘cose brutte’ continuerà a far finta di niente, coloro i quali provengono da famiglie che dal fascismo e dal nazismo hanno tratto vantaggi economici che si porteranno appresso per lunghi anni guarderanno con fastidio a qualunque ricordo possa in qualche modo, anche lontanamente, scalfire la propria posizione. Ma i giovani in formazione no – ha sottolineato Mario De Simone nell’introduzione del libro -. Essi sono ancora liberi dagli orpelli che con lo sviluppo l’uomo si costruisce e quindi in grado di ben comprendere i fatti e di ricordarli sempre. Questa deve essere la finalità della mia azione, ormai venticinquennale, di incontri con i ragazzi delle scuole”.
La testimonianza di Tati Bucci
“Una sera di marzo, a Fiume, fra una gran confusione, vestirono di fretta tutti noi bambini. Il nostro delatore accompagnò a casa nostra i tedeschi e fascisti che ci arrestarono – ha ricordato Tatiana Bucci -. Vedemmo la nostra nonna inginocchiata che pregava di lasciare stare almeno noi bambini. Non fu così. Il giorno dopo arrivammo alla risiera di San Sabba. Gli adulti furono interrogati per saper dove fossero altri membri famiglia. Poi alla stazione centrale di Trieste ci misero sul treno bestiame. Mamma Mira riuscì a scrivere un bigliettino e lanciarlo dal finestrino, che poi venne raccolto da un ferroviere e consegnato a papà da un carabiniere. Avvertiva che eravamo stati arrestati e portati via per un luogo sconosciuto. Arrivammo fuori da Birkenau il 4-04-1944. Si formarono file, vedemmo nonna Rosa sul camion, confusione. Abbiamo saputo in seguito che era andata subito alle camere a gas”.
“Sembra ad oggi che Mengele ci abbia scambiate per gemelle, così superammo la selezione. Anche Sergio si salvò dalla selezione, ma non sappiamo bene perché”. “Poi fummo spogliate. Non avevo mai visto mia mamma nuda. Per tutte le donne fu uno shock. Tatuate come animali, diventammo dei numeri”. “Nel Kinderblock le blockove, le capo-baracca, erano delinquenti comuni e ci dicevano che eravamo ebrei. Così pensammo che quella fossa la vita degli ebrei. Stenti, fame, freddo, ma stranamente in qualche modo ‘ci abituammo’. Mamma veniva a volte la sera. Smagrita incredibilmente, ci faceva paura e così io e mia sorella non ci facevamo toccare. Anni dopo, quando è nato il mio primo bambino, ho capito quanto dolore devo aver dato a mia mamma. Poi non la vedemmo più, e abbiamo in seguito saputo che era stata trasferita”.
“Noi bambini vedevamo il camino con il fuoco, ma non ci rendevamo conto della gravità delle cose – ha sottolineato Tatiana Bucci -. Ho capito anni dopo che cosa significasse uscire dal camino. Tutti i giorni vedevamo cataste di morti. Ma noi bambini riuscivamo a giocare, anche fra il fango e la neve. Sergio stava spesso con i maschietti. Un giorno la blockova, che forse ci prese in simpatia, disse a me e mia sorella che se ci avessero proposto di raggiungere la nostra mamma avremmo dovuto rifiutarci. Lo dicemmo anche a Sergio. Ma lui non seppe evitare di fare quel maledetto passo avanti”.
“Mia mamma, una volta tornata a casa, raccontò dei lager. Ma non le credettero. Così non parlò più di Auschwitz. Lo stesso successe ad altri sopravvissuti, alcuni poi diventati testimoni. Oggi invece se ne parla e bisogna continuare, visto quanto accade in Italia e in Europa”. “Credo che il fascismo in Italia non se ne sia mai andato, ma che fosse solo nascosto. Oggi non lo è più. Sono molto preoccupata, anche perché non si è imparato ad accettare il diverso. Gli immigrati non sono voluti, non siamo capaci di dar loro una mano. Il nostro Mediterraneo è diventato un cimitero. Nemmeno a noi nessuno volle dare un aiuto”.