Soldati al fronte, pionieri al lavoro, bambini del bet yeladim in kibbutz. Opere ispirate all’epica hallutzistica e all’ethos del sionismo delle origini. Il tutto realizzato rivisitando immagini fotografiche rielaborate con pittura a olio e disegno, nei toni sabbia del deserto. Con una resa quasi monocroma, abbastanza insolita per l’artista Barbara Nahmad. Di carne e di sangue è fatta la costruzione di una Patria ma altrettanto di ricordi e immagini personali e collettive: cosa succede quando queste vengono a contatto con l’arte, con lo sguardo autonomo della pittura? «Quanto conta la mia biografia d’artista nata a Milano – famiglia di ebrei egiziani immigrati in Italia negli anni ’50, scuola ebraica, l’Hashomer Hatzair, il lavoro nel kibbutz di Sasa -, e quanto conta quello che, negli stessi anni, accadeva al mio popolo in Israele? In che rapporti stavano le due dimensioni? Queste opere sono nate così», spiega Barbara Nahmad, in mostra a Tel Aviv con nuovi lavori ispirati all’epos israeliano.
«Ho attinto alle fonti storiche, vecchi libri che circolavano negli anni Cinquanta nelle Comunità ebraiche di tutto il mondo. Il loro scopo era favorire l’Aliyà. Decenni dopo, dipingendo, scoprii un paradosso: non c’è immigrazione senza memoria. E non c’è memoria senza oblio».
«Ho dipinto solo flashes di vita tanto quotidiana quanto perduta per sempre. Più che una tardiva e nostalgica operazione di salvataggio, questa mostra ha a che fare col respiro del tempo. Ma era necessario cambiare stile. Così ho abbandonato la tecnica dello smalto, da sempre la mia cifra stilistica; dall’anima, ma anche dalla tela, via i segni ridondanti. Il passato, in fondo, non è un luogo ideale per vivere, ma per far pulizia di un presente troppo furbo e chiassoso».
Inaugurazione: 10 giugno 2014, Ermanno Tedeschi Gallery Tel Aviv, Lilienblum 3 Neve Tzedek