di Davide Foa
Selvino, vi dice niente questo nome? Si tratta di un paesino (2.021 abitanti) a settantotto km da Milano, dove, negli anni seguenti la fine della seconda guerra mondiale, furono accolti all’interno di una colonia denominata poi Sciesopoli ben 800 bambini ebrei superstiti alla Shoah (e di cui proprio quest’anno ricorre il 70° anno, che verrà celebrato alla presenza dei superstiti e dei loro famigliari)
Oggi Selvino viene definita da Yad Vashem, “una colonia di Eretz Israel”. Già, perché proprio il grande museo di Gerusalemme ha ideato e messo a disposizione, da qualche mese, una mostra online dedicata ai numerosi campi italiani che ospitarono profughi ebrei una volta finita la seconda guerra mondiale.
Questi punti di raccolta, anche detti DP (Displaced Persons) camps, furono gestiti e ideati da soldati ebrei combattenti sia per la British Army che per la Brigata Ebraica, come luoghi di transito dove accogliere i sopravvissuti dei campi di concentramento, in attesa di un loro reinserimento nel tessuto sociale, con tutte le problematiche del caso.
Oltre a quello di Selvino, si contavano in Italia 34 DP camps, molti dei quali accoglievano anche profughi non ebrei. Vi erano poi quarantacinque Hachsharot, quei campi di addestramento dove giovani ebrei si preparavano alla vita del kibbutz, in attesa di raggiungere la tanto desiderata Terra d’Israele (allora ancora sotto Mandato Britannico).
In questi campi, i profughi entrarono in contatto con soldati sia della Brigata Ebraica, sia delle forze alleate. Del resto gli ebrei italiani avevano avuto modo di conoscere soldati ebrei, combattenti per le forze alleate, già dal settembre del ‘43, ovvero dall’inizio della liberazione della penisola.
La Brigata Ebraica arrivò poi in Italia nel novembre del ‘44 e si stabilì a Tarvisio, località situata vicino al confine con Austria e Jugoslavia. Da Tarvisio i combattenti per la brigata raggiunsero DP camps austriaci e tedeschi, stabilendo quindi dei contatti con giovani ebrei sopravvissuti che, una volta finita la guerra, arrivarono in Italia passando prima da Tarvisio per essere poi trasferiti nei campi profughi del Meridione.
Le condizioni di vita non erano certo ottimali all’interno dei campi, specie dal momento in cui la Brigata si ritirò dall’Italia nell’estate del ‘45. Povertà, cattive condizioni sanitarie e soprattutto la fame rendevano il soggiorno poco piacevole. Anche per questo, Israele appariva sempre più agli occhi dei sopravvissuti come la vera ed unica ancora di salvezza. Si calcola che due terzi dei 50.000 rifugiati ebrei presenti in Italia dopo la guerra, decisero di raggiungere Israele; il terzo rimanente optò per gli Stati Uniti, l’Australia e il sud America.
Le autorità britanniche, supervisori della penisola uscita dalla guerra, fecero pressioni sul governo italiano affinché impedisse ai profughi di raggiungere la Palestina, territorio posto all’epoca sotto mandato britannico. In realtà le autorità italiane fecero ben poco di fronte ai continui tentativi di immigrazione illegale in Palestina, forse anche perché impegnate in problemi più urgenti dal loro punto di vista.
L’Italia divenne così il paese da raggiungere per chi, come la maggior parte dei giovani ebrei europei, aveva come obiettivo finale l’Alyah.
“Credo che una delle cose più importanti riguardo Selvino, sia stato il fatto che questa casa (…) ci ha dato indietro la nostra giovinezza.” Shmuel Shilo, aveva 16 anni quando arrivò a Selvino.