di Marina Gersony
Una trasposizione scenica di racconti del Midrash. Cristiana Capotondi leggerà a Milano delle storie tratte dal Talmud per la Giornata europea della cultura ebraica. Il nonno medico nel ghetto di Roma, le radici, la fede e la ricerca spirituale: l’attrice si racconta
C’era una volta Rabbi Yehoshua ben Chananya, un Maestro non particolarmente bello, e una splendida principessa. La principessa disse al Maestro che la sua saggezza (la Torà) era custodita in un corpo (contenitore) poco attraente. In risposta, il Maestro rispose spiritosamente che anche il vino veniva conservato in recipienti di terracotta, nonostante non fossero belli. Suggerì quindi alla giovane che i suoi nobili parenti avrebbero potuto utilizzare recipienti d’oro e d’argento. La principessa riferì il consiglio del Maestro a suo padre, l’imperatore, che decise di mettere il vino in recipienti lussuosi. Ma il vino si inacidì. L’imperatore chiamò il Maestro e gli chiese il motivo di quel consiglio disastroso. Il Maestro rispose che aveva semplicemente risposto alle parole della principessa e che voleva insegnarle che la saggezza si preserva meglio grazie a persone dall’aspetto poco attraente. La principessa ribatté che anche le persone di bell’aspetto potevano studiare la Torà e che la bellezza non avrebbe precluso l’apprendimento. Il Maestro replicò che tuttavia la bellezza avrebbe potuto portare queste persone a dimenticare facilmente ciò che avevano imparato, mancando di umiltà.
La morale di questa storia, da noi rielaborata rispetto al testo originale, è che la saggezza va oltre l’aspetto esteriore. La storia del Maestro brutto e la figlia dell’imperatore (Taanit 7a-b) è stata tramandata come insegnamento morale: le apparenze possono ingannare, ma la vera saggezza risplende diventando bellezza allo stato puro.
Cristiana Capotondi, attrice dalla ricca carriera, leggerà questo e altri brani nel corso della Giornata Europea della Cultura Ebraica 2023 (Gece), dedicata al tema della Bellezza, mettendo un tocco ebraico alla sua interpretazione. Organizzata dalla Comunità Ebraica di Milano, la rassegna si svolgerà il 10 settembre. Durante l’evento, è previsto uno spazio dedicato ai racconti del Talmud, alle sue parti narrative e non esegetiche o legislative, curato da Ugo Volli e David Piazza che commenteranno i testi.
Bella e brava, abbiamo intervistato Cristiana Capotondi che ci ha fatto riflettere sulla bellezza al di là dei soliti canoni estetici. L’attrice ha sottolineato l’importanza di considerarla come un dono, una sorta di valore aggiunto, e di accettarla come una convenzione umana, senza trascurare gli eventuali limiti etici che possono sorgere in coloro che ne sono o non ne sono dotati. Capotondi ha inoltre parlato con passione delle sue radici ebraiche, che pur essendo distanti nel tempo, sono profondamente sentite e costituiscono una fonte inesauribile di ricerca e ispirazione.
Cosa l’ha colpita di più del racconto «Il Maestro brutto e la figlia dell’imperatore»?
Mi hanno colpito la potenza e la forza di questo trattato talmudico così diretto e concreto. Ci mostra come un oggetto qualunque, per esempio un semplice vaso di terracotta brutto o apparentemente insignificante, possa in realtà essere prezioso e funzionale, un simbolo di raffinatezza e valore. Questo racconto, nella sua profonda semplicità, è una metafora efficace della nostra società attuale, sempre più orientata all’apparenza piuttosto che alla sostanza. Serve a ricordarci che la bellezza estetica, anziché essere consumata, deve servire al bisogno di elevazione spirituale e va apprezzata senza alcun altro scopo.
Lei si è spesso dichiarata pubblicamente orgogliosa delle sue origini ebraiche. Che cosa rappresentano per lei?
Sono figlia di un matrimonio in parte misto. Mio nonno materno si chiamava Angelo Citone, proveniva da una famiglia semplice di ebrei romani. Grazie al suo impegno e alla volontà di ferro, si laureò a pieni voti in Medicina con grande orgoglio della sua famiglia. Aveva 26 anni. Negli anni più cupi del nazifascismo, il nonno girava in bicicletta, rischiando la vita per curare i malati. Nel 1944 sposò una ragazza cattolica, dopo che i tedeschi si erano ritirati da Roma. Erano entrambi molto legati alla loro religione. Da quel matrimonio nacquero tre figli, tra cui mia madre. Era un personaggio straordinario, che ha lasciato una forte impronta dentro di me.
Che cosa di preciso?
Mi ha lasciato un senso di appartenenza nonostante nell’ebraismo prevalga l’appartenenza matrilineare, per cui è ritenuto ebreo chi nasce da una madre a sua volta ebrea. La mia appartenenza è dunque un fatto più culturale che religioso, difficile da spiegare. È un modo di vedere la vita, una sorta di tensione verso il futuro, ma anche di un imprescindibile sguardo al passato che ogni cultura deve mantenere per non dimenticare le proprie origini. Ho respirato, visto, letto la cultura ebraica fin da piccola. Finché nonno Angelo era in vita si festeggiava Kippur e Rosh haShana. A Kippur, il giorno più santo e solenne dell’anno, andavamo al Tempio con il nonno che dava la sua benedizione a tutta la famiglia.
Quali sono gli scrittori, i registi e i cibi ebraici che preferisce?
L’elenco sarebbe lungo. In breve, posso citare Philip Roth come scrittore; Hanna Arendt come filosofa; Steven Spielberg come regista; Barbra Streisand come attrice; Kirk Douglas come attore. Riguardo al cibo, adoro la tradizionale treccia con zuccherini e ciliegie candite, preparate il venerdì prima dello Shabbat, che si può comprare da Boccione, la piccola pasticceria kosher nel ghetto di Roma. Senza contare la straordinaria cucina multietnica israeliana di cui vado pazza.
Perché il nome Cristiana?
Non è mai stato chiaro, sebbene mio padre sia un fervente cattolico non credo abbia avuto la forza di imporsi, in ogni caso sono felice di chiamarmi Cristiana, un nome che risuona dentro di me; un nome che mi parla di queste due grandi culture e mi riconduce al nome del Cristo, alla sua duplice natura umana e divina; una figura straordinaria che continua ad affascinarmi e a incuriosirmi. Sia il giudaismo che il cristianesimo hanno avuto difficoltà nel riconoscere pienamente e apertamente che Gesù era un ebreo. Mentre i cristiani spesso hanno immaginato Cristo come separato dalla sua terra, il suo tempo e il suo popolo, per gli ebrei Gesù è stato visto per molti secoli come colui che ha causato persecuzioni nei loro confronti, rendendo difficile considerarlo parte della loro identità. Un tema delicato e complesso, non ho ancora trovato una risposta.
Come fa a conciliare queste due radici diverse?
In casa nostra, abbiamo sempre coltivato un profondo rispetto reciproco, creando un ambiente in cui le nostre diverse tradizioni religiose si intrecciavano armoniosamente. Non solo abbiamo festeggiato con gioia le importanti ricorrenze ebraiche, ma abbiamo anche abbracciato le festività cattoliche, come il Natale, privilegiando l’aspetto spirituale rispetto a quello consumistico. Questo approccio ci ha permesso di valorizzare il vero significato delle celebrazioni, donando alle festività un’essenza più profonda e arricchente per tutti i membri della famiglia.
Queste diversità non rischiano di creare confusione?
Al contrario, nel mio caso stimolano la mia curiosità e il desiderio di indagare, comprendere e approfondire sempre di più sia l’ebraismo che il cattolicesimo. Le religioni, in generale, non sono predisposte a cercare contaminazioni o ibridazioni con altre fedi. Esse sono solitamente strutturate per preservare la loro identità e pratiche specifiche. Tuttavia, è importante considerare che nella società moderna il fenomeno delle coppie miste e delle interazioni tra diverse tradizioni religiose è in aumento. Questo meticciato culturale e religioso solleva questioni complesse che meritano una riflessione ben più approfondita.
Lei come si definirebbe?
Mi definisco una laica relativista, e ho trovato punti di riferimento preziosi nei miei genitori e nei loro insegnamenti. Entrambi credono fermamente in Dio, ognuno secondo la propria visione. Mi sento fortunata ad avere una mentalità aperta, di aver sviluppato un solido senso critico, e sono felice di essere la persona che sono. Credo in un Dio unico, credo nella sua Divinità. Egli mi sostiene, mi ascolta, è un padre generoso che mi accoglie e mi protegge. La kippah, per me, è sentire la mano di D-o sulla testa, la consapevolezza della sua presenza al di là della mia ragione, come un’Entità superiore che vive in ognuno di noi e ci ricorda che la vita umana può essere un atto divino di costante creazione.
Cosa insegnerà a sua figlia Anna?
Le insegnerò i valori in cui credo.
Prossimo lavoro?
Interpreterò Margherita Hack, la grande astrofisica, divulgatrice scientifica e attivista italiana. Sono felicissima ed entusiasta di questo ruolo.