di Esterina Dana
È possibile parlare di arte ebraica alla luce del divieto d’immagine ordinato dal secondo Comandamento? Nell’ambito della Giornata europea della cultura ebraica, in una sala gremita del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, affrontano la tematica Riccardo Sorani e Alfonso Sassun, introdotti da Manuela Sorani.
Nel corso della storia, gli artisti ebrei hanno rispettato il divieto di immagine con approcci differenti: alcuni con intransigenza, altri, sottolineando l’aspetto non cultuale delle loro opere, hanno definito l’identità astratta della divinità attraverso la metonimia. Nella Sinagoga di Dura Europos in Siria (metà III secolo), gli affreschi narrano storie tratte dalla Bibbia e dal Midrash: quella di Mosè che guida gli ebrei fuori dall’Egitto rende visibile l’effetto dell’intervento divino come sulla scena di un film. Nei mosaici pavimentali della Sinagoga di Beth Alpha (VI secolo), ubicata in Israele alle pendici nord del monte Ghilboa, la scena del Sacrificio di Isacco esprime simbolicamente il patto fra l’uomo e Dio, rappresentato da una mano.
L’uso di immagini simboliche che rivelano la conoscenza approfondita della cultura ebraica è ricorrente nelle opere di tre grandi artisti del Rinascimento: Michelangelo, Leonardo e Giorgione. Tutti ne hanno subito gli influssi. Ad accompagnare il pubblico in un percorso sul linguaggio dell’arte è Alfonso Sassun. Di Michelangelo affronta i dipinti su due dei quattro pennacchi della Cappella Sistina, dimostrando che la scelta dei soggetti operata dall’artista maschera dei messaggi indiretti.
Il primo pennacchio, che si trova a destra dell’altare della cappella, ha per soggetto La punizione di Amman e richiama quindi la festa di Purim. Il secondo si trova a sinistra dell’altare e rappresenta il Serpente di bronzo, in cui viene narrata la salvezza divina del popolo ebraico dalla pestilenza occorsa per essersi ribellato a Mosè nel deserto. Nel brano relativo di Bamidbar (21, 4-9) Sassun identifica le parole che alludono alle tre berachot di Hanukkà: quella di accendere le candele, il miracolo dell’olio e la salvezza del popolo ebraico. In questo modo Purim e Hanukkà, vengono associate; entrambe ricordano il tentativo di sterminare il popolo ebraico l’una materialmente, l’altra spiritualmente.
Analogamente si può dire di Leonardo per il Cenacolo, nel quale sono inseriti molti elementi della tradizione ebraica. Vi è descritto un seder di Pesach, laddove l’artista dipinge una tavola, apparecchiata con pane, sale, vino, acqua e melograni, che rappresenta l’altare dei sacrifici del Mishkan. In esso erano presenti 12 pani/matzot, uno per tribù, e il sale che rappresenta uno dei quattro patti specifici tra l’uomo e Dio. E’ detto: “Tutti i tuoi sacrifici verranno accompagnati dal sale”. Anche il vino rientra nella medesima cornice e rappresenta il Din, il rigore. I melograni sono il simbolo delle vesti del Gran sacerdote sulla cui tunica si alternavano campanellini e melograni. Uno dei frutti che viene citato nel Cantico dei Cantici, che si legge a Pesach, è il melograno, simbolo dell’uomo che rispetta tutte le mizvòt. L’acqua, invece, era versata sull’altare a Sukkot, festa che succede a Rosh Hashanà (il giudizio) e a Kippur (il perdono), perché rappresenta la misericordia divina.
Anche nei Tre filosofi, una delle ermetiche opere più discusse di Giorgione, Sassun ravvisa tracce ebraiche dissimulate. Nel quadro sono rappresentate tre figure maschili, l’ultima è Mosè. Egli regge una tavoletta con il disegno di due cerchi e i numeri 7 e 4. Ciò fa riferimento alla creazione e al quarto giorno in cui furono create le luminarie grandi, il sole e la luna, e le piccole le stelle.
Nel Novecento l’aspetto estetico della bellezza è abbandonato, dice Sorani. Gli artisti ebrei assimilano e rielaborano le novità delle Avanguardie storiche, come Chagall a Parigi. Nelle sue opere emergono riferimenti alla sua esperienza personale, a detti Yiddish o al concetto di bellezza come transitorietà, espressa attraverso l’immagine della vecchiaia. Nell’opera di Sasha Sosno, Grande Venus (1984) la bellezza è incompletezza. Oppure cancellazione, memoria e rimando come in Discesa nel Limbo (2016) di Anish Kapoor. Si può dire quindi che nell’arte ebraica o nella produzione degli artisti ebrei contemporanei predomini il concetto etico di bellezza come imperfezione ad ottemperare al secondo comandamento.
Giorgione, I tre filosofi