di Sofia Tranchina
Stanley Kubrick è nato ebreo, sì, nella New York ebraica, con un tipico nome da ebreo newyorkese, e aveva una barba lunga che gli dava «un’aura da studioso di Talmud» o da «cinico rabbino» (secondo le parole del suo collega Arthur C. Clarke). Ma, come diceva lui, non era «really a Jew, but just happened to have two Jewish parents» (non era veramente ebreo, gli è soltanto capitato di avere due genitori ebrei). Eppure, la sua ossessione per altri intellettuali ebrei (Freud e Kafka) e per temi squisitamente ebraici sembrerebbe suggerire tutt’altro.
Di questo hanno parlato, nel pomeriggio della Giornata europea della cultura ebraica, il regista Alex Infascelli (a destra nella foto)– che ha conosciuto Christiane Susanne (l’ultima moglie di Kubrick) e Emilio D’Alessandro (il suo autista) in occasione della realizzazione di una featurette per LA7 – e il giornalista Niram Ferretti (a sinistra).
Ricevuta una macchina fotografica come regalo dei 13 anni da parte di suo padre, il giovane Kubrick diventa presto bulimico di immagini. Ritrae la realtà in modo asciutto ed efficace, lasciando che «esploda nella nostra testa facendo scaturire mille domande – spiega Infascelli -. La forza icastica delle immagini di Stanley (che non lascia nessun tipo di possibilità interpretativa) ha creato spazi tanto assoluti da diventare fantastici».
I due grandi temi che lo ossessionano e che ne avviluppano l’opera sono la guerra e la pornografia: in entrambi K. vede l’espressione ultima della verità dell’essere umano, la lotta tra il mensch etico e il goy di ego e testosterone.
Per lui la figura umana è sempre minacciata dal peccato, dalla violenza, dall’oppressione, pur sentendo che c’è una via etica. Cerca allora di raccontare quale possa essere la fatica intrinseca nel libero arbitrio, senza però darne una soluzione.
Stanley prende progressivamente dimestichezza con quello che è lo spazio e il suo potere narrativo, e inizia a giocarci con inquadrature originali e luci studiate, seguendo una metodologia militare-scientifica, forse ereditata dal padre medico.
Con un’ironia tipica dell’ebraismo da cui cercava di emanciparsi, poco dopo il suo matrimonio con Christiane – che gli porta in casa la figlia di primo letto, adolescente – dirige Lolita, in cui un autore si innamora della figliastra.
«Qualsiasi cosa passi per i suoi occhi raggiunge un livello parossistico». È la stessa ironia con cui, poco dopo, straccia la prima sceneggiatura di Dr Stranamore, per riscriverla tutta in chiave comica. Perché, in fin dei conti, «non c’è un modo serio per raccontare un’idea così ridicola come sopravvivere a una guerra nucleare».
Nel ’68 il suo ateismo implode davanti alle domande esistenziali “chi siamo” e “da dove veniamo”, che lo portano alla creazione di 2001, Odissea nello spazio, in cui «il monolite non è che una delle tavole della legge».
La proiezione doveva essere preceduta da una featurette di interviste a teologi e scienziati sulla possibilità di vita nello spazio, ma questa fu subito cancellata dalla Metro-Goldwyn-Mayer.
Nel 1919 rimane colpito dal Perturbante di Freud, in cui lo psicanalista espone che l’heimlich, la dimensione domestica, ci è familiare e pensiamo di poterla controllare solo perché la vediamo sotto i nostri occhi, ma, citando Schelling, «nel familiare c’è qualcosa di unheimlich» che dovrebbe rimanere nascosto, segreto, perché riaffiorando perturba la nostra percezione dell’ordine e della convenzione.
Poco dopo escono i tre romanzi di Kafka America, Il Processo, e Il Castello, apoteosi della dimensione dell’unheimlich, e Traumnovelle di Arthur Schnitzler, di cui Kubrick si innamora e non resiste alla tentazione di farne un film, che diventerà Eyes Wide Shut.
In Eyes Wide Shut Kubrick drammatizza la psicanalisi e mette in scena il trauma, l’irrompere dell’inquietante nella consuetudine. Per farlo, il regista sceglie come attori un marito e una moglie (Tom Cruise e Nicole Kidman) e li disintegra, tanto che loro si lasceranno dopo il film.
Gli occhi “spalancati chiusi” sono gli occhi in movimento della fase REM, che vedono il sogno a palpebre abbassate. È un film meta-cinematografico, impregnato di giochi ipertestuali e tanto semanticamente stratificato che la critica fa fatica codificarlo, spiega Ferretti; un film che ha a che fare col sesso, col potere, e con la morte, che ci interroga sulla nostra percezione della realtà e la nostra conoscenza del mondo. «È la pornografia fatta da Stanley Kubrick».
Ci ricorda che l’ordine, le nostre certezze, e la civiltà stessa, sono qualcosa di costruito, fragile, mai garantito, perché le pulsioni distruttive sono sempre presenti all’interno dell’uomo e pronte a riattivarsi. L’ordine è assediato dalla minaccia, e tutto il cinema di Kubrick è assediato dall’unheimlish.
«Rivederne i film è trovarsi davanti a un artista che ci interroga continuamente e non ci da mai facili risposte», conclude Niram Ferretti.