GECE 2023. La bellezza attraverso la saggezza del Talmud

di Ilaria Myr
Il tema della bellezza alla Giornata europea della cultura ebraica è stato affrontato anche attingendo al Talmud, e in particolare ai suoi racconti. Come hanno spiegato i due relatori, David Piazza e Ugo Volli, le haggadot (racconti) costituiscono una parte molto interessante del Talmud, che per molto tempo è stata trascurata e vista con sospetto, perché si prestano a diverse interpretazioni. “I racconti possono essere narrazioni che integrano il testo biblico, o aneddoti, o ancora opera dei maestri stessi – spiega Ugo Volli -. Si tratta comunque sempre di testi che contengono un approfondimento e che vengono trasmessi per colpire – come diceva Rav Arbib nel suo intervento – anche le emozioni, e non solo l’intelletto”.

A leggere i quattro racconti scelti per la giornata la note attrice Cristiana Capotondi, che ha interpretato in modo efficace i testi. Qui i testi e i commenti.

 

Il Maestro brutto e la figlia dell’imperatore

(Trattato di Taanìt, pagina 7a-b)

Yehoshùa ben Chananià camminava lungo il sentiero che conduceva al palazzo dell’imperatore. Anche i Romani rispettavano R. Yehoshùa per la sua saggezza e per i suoi modi gentili. Al suo passaggio, le guardie si inchinarono rispettosamente. Sapevano quanto l’imperatore stimasse R. Yehoshùa e lo lasciarono passare liberamente. R. Yehoshùa passava agilmente sui tappeti di velluto rosso, facendo scorrere lo sguardo sulle colonne scolpite, quando si imbattè nella principessa assorta a studiare le aiuole.

La principessa scrutò la figura del saggio con interesse. “Come può una saggezza tanto gloriosa essere contenuta in un recipiente tanto brutto?”, disse ridendo. Ma R. Yehoshùa non rispose alterato alle sue parole rudi. Egli chiese invece tranquillamente: “Ditemi, altezza, in quali recipienti vostro padre, l’imperatore, tiene i suoi vini squisiti?” “In orci di terracotta”, ella rispose subito, chiedendosi dove volesse arrivare R. Yehoshùa.

“In orci di terracotta?”, fece eco l’uomo meravigliato, “Ma questo è il modo in cui i contadini conservano il vino. Il grande imperatore non può permettersi recipienti più belli?” La principessa era confusa. “È un punto a tuo favore”, ammise. “Come gli consiglieresti di conservare il vino?” “La famiglia reale deve conservare i vini in recipienti d’oro e d’argento, come si addice al vostro ceto superiore”, rispose lui. La principessa si recò immediatamente nelle cantine reali. Guardò con sguardo sprezzante, una fila dopo l’altra, gli enormi orci panciuti di terracotta nell’umida cantina sotterranea. Quella sera ripetè il suggerimento di R. Yehoshùa ben Chananià a suo padre, senza dirgliene la provenienza. L’imperatore seguì il consiglio della figlia e ordinò ai servi di versare il vino in recipienti d’oro e d’argento.

La nobiltà romana si era riunita a banchetto con la famiglia reale. I calici di cristallo scintillavano quando il vino ricco e purpureo veniva versato. L’imperatore brindò con l’ospite accanto a lui e centellinò il contenuto del calice. Poi, improvvisamente, fece una smorfia. Anche tutti gli ospiti fecero delle smorfie di disgusto. Invece del vino raffinato che si aspettavano dalla cantina reale, avevano bevuto aceto!

Il cuoco quasi svenne quando si rese conto di ciò che era accaduto. L’addetto ai vini reali fu convocato davanti all’imperatore, che gli chiese una spiegazione. Questi annusò il vino, lo assaggiò e esclamò: “Questo vino è inacidito.” Un servo fu mandato a prendere un vino diverso. Anche questo era diventato acido.

Allora l’imperatore capì che cosa era successo – il vino era diventato acido perché era stato travasato dagli orci originali. Rivolgendosi irosamente a sua figlia, disse: “Dimmi, figliola mia: Chi ti ha dato l’idea di spostare le botti del vino reale?” “R. Yehoshùa, il saggio ebreo”, rispose la principessa con aria sottomessa. “R. Yehoshùa?”, replicò l’imperatore, esterrefatto. “Portatelo qui immediatamente.”

“Non avrei mai creduto”, disse l’imperatore a R. Yehoshùa, “che un uomo come te, famoso per la sua saggezza, potesse dare consigli tanto folli.”

Yehoshùa si difese dicendo: “Ebbene, Altezza; ho semplicemente ripagato vostra figlia della stessa moneta con cui ella mi ha pagato.”

“Parli per indovinelli. Spiegati”.

“Benissimo, Maestà. Vostra figlia mi ha chiesto come la mia grande saggezza potesse essere contenuta in un corpo tanto brutto. Non avevo alcuna alternativa, se non quella di dimostrarle concretamente che la Torà, come il vino, si conserva meglio in un recipiente modesto. La prova è che il vino conservato negli orci di terracotta mantiene il gusto, mentre il vino conservato in eleganti recipienti d’oro o d’argento diventa acido. Penso che la lezione si spieghi da sé.”

La principessa, vergognandosi, abbassò gli occhi. “Ma non ci sono allora Saggi ebrei che siano anche belli?”, chiese l’imperatore.

“Ci sono”, rispose R. Yehoshùa, “ma se fossero meno avvenenti sarebbero ancora più sapienti.”

 

“Questo racconto riflette sul rapporto fra contenuto e contenitore – hanno spiegato Piazza e Volli – e suggerisce anche l’idea che la bellezza esteriore possa essere ingannevole, mentre la bruttezza abbia a che fare con la bellezza interiore”.

Il Maestro arrogante e il passante brutto

(Trattato di Taanìt, pagina 20a-b)

Una volta rabbì Elazàr, figlio del famoso rabbì Shimòn bar Yochài, autore del testo mistico Zòhar, stava arrivando dalla località Torre di Ghedòr, dalla casa del suo Maestro.

Cavalcava il suo asino sulla riva del fiume, ed era felice e soprattutto molto soddisfatto  e orgoglioso di sé perché quel giorno aveva studiato molta Torà con successo.

Incontrò a un certo punto un uomo molto brutto, ma così brutto che rimase senza parole.

Quello invece si affrettò a salutare e gli disse: «Salve rabbì!»

Ma rabbì Elazàr non si degnò nemmeno di rispondere al saluto. Gli disse invece brutalmente: «Mamma mia, come sei brutto! Forse anche tutti gli abitanti della tua città sono brutti come te!?»

Prontamente l’uomo dal brutto aspetto gli rispose: «Io non lo so, ma vediamo se lei ha coraggio di dire all’Artista che mi ha fatto: “Come è brutta l’opera che hai creato!”»

Questa risposta scosse rabbì Elazàr che capì di aver sbagliato, l’Artista è senza dubbio il Creatore del cielo e della terra. Scese subito dall’asino, si prostrò davanti all’uomo e gli disse: «Mi rendo conto di aver peccato gravemente nei tuoi confronti, ti prego di perdonarmi!»

L’uomo però disse: «Non sono sicuro che lei abbia capito. E non la perdonerò fino a che non andrà dall’Artista che mi ha fatto a dirgli: “Come è brutta l’opera che hai creato!”». L’uomo era infatti convinto che la colpa del grande rabbino non fosse solo nei suoi confronti, ma nei confronti di Chi ha creato tutto.

Rabbì Elazàr seguì allora l’uomo di brutto aspetto fino alla sua città, chiedendo continuamente perdono, ma invano. L’uomo era irremovibile.

Giunti in città gli abitanti riconobbero il grande Maestro e, ignari di quanto era avvenuto per strada, gli andarono incontro festosi, dicendo: «Vi salutiamo rabbì, rabbì, nostro Maestro, nostro Maestro!»

L’uomo dal brutto aspetto non poté più trattenersi e gridò: «Ma chi è che chiamate “rabbì”»?

Gli dissero: «Chiamiamo rabbì quell’uomo che cammina dietro a te».

Disse loro duramente: «Se questo lo considerate rabbì, speriamo che non ce ne siano molti di rabbì come lui nel popolo di Israele!»

 Stupiti gli risposero allora: «Ma che ti salta in mente? Perché dici così?»

L’uomo raccontò allora nei dettagli quello che era successo quando aveva incontrato il grande Maestro. Ma quelli insistettero e gli dissero: «Anche se le cose stanno così, perdonalo, perché è comunque un grande studioso di Torà».

Capendo di essere rimasto in minoranza e sconsolato, disse allora a loro: «Bene, lo perdono solo per voi, a patto però che non continui a comportarsi a quel modo».

L’uomo di brutto aspetto infatti, pur nella sua ignoranza sapeva che il pentimento non è mai completo senza un impegno a non commettere più la relativa trasgressione.

Il protagonista di questo racconto è Rav Elazàr, figlio del famoso rabbì Shimòn bar Yochài, che durante il 2 secolo dell’era volgare si nascose, con il padre, in una grotta per scampare alla sanguinosa persecuzione romana: la leggenda dice che nella grotta, dove rimasero per 12 anni, crebbe un carrubo che li mantenne in vita.

“Questo è un racconto problematico non solo perché parla di un rabbino importante che tratta male una persona, ma perché nel Talmud generalmente le persone vengono citate per nome se si comportano bene, mentre si fa accenno alla loro identità se non meritevoli – spiega Piazza -. Una delle interpretazioni dei commentatori dice che in realtà l’uomo brutto è il profeta Elia,  che vuole metterlo alla prova. Un”altra invece che la parola brutto qui in realtà significa maleducato: secondo le regole dell’epoca una persona del popolo non doveva salutare per primo il grande maestro”.

Come si balla davanti alla sposa

(Trattato di Ketubbòt, pagina 16b-17a)

A Gerusalemme esistevano un tempo due grandi scuole, dirette dai Maestri più grandi del tempo. Una era la Scuola di Hillèl il babilonese, che era nota per la sua umanità creativa, e la seconda era la Scuola di Shammài, nota invece per il suo rigore etico.

Un giorno gli alunni delle due Scuole stavano appassionatamente discutendo tra loro di una questione forse futile: come si balla e si canta davanti a una sposa e soprattutto, come si lodano le sue virtù nei testi delle canzoni, per adempiere al precetto rabbinico di rallegrare gli sposi?

Esordirono gli alunni della Scuola di Shammài dicendo: «Noi usiamo sempre lodare le qualità della sposa così come sono: infatti diciamo che è bella, alta o virtuosa solo se lo è veramente.»

Gli alunni della Scuola di Hillèl allora replicarono: «Noi invece diciamo che la sposa è sempre bella e affascinante, anche se non lo è!»

Scoppiò allora un pandemonio. Alzando un po’ la voce, gli alunni della Scuola di Shammài chiesero a questo punto in maniera provocatoria agli alunni della Scuola di Hillèl: «Ma, allora se la sposa era zoppa oppure era cieca, perfino in questo caso diciamo che è bella e affascinante? Non è scritto forse chiaramente  nella Torà: Allontanati dalla menzogna (Es. 23:7)!?!»

«Calma, calma». Risposero gli alunni della Scuola di Hillèl a quelli della Scuola di Shammài: «Proviamo a seguire il vostro ragionamento e immaginiamo il caso di una persona che abbia acquistato al mercato un oggetto di scarsa qualità. Secondo voi, una volta acquistato l’oggetto, sarebbe meglio fare a quella persona i complimenti per l’acquisto, oppure bisognerebbe fargli notare che non ha fatto un buon affare? Che senso avrebbe dargli un inutile dispiacere, quando comunque l’affare è stato ormai portato a termine?»

E continuarono poi: «Lo stesso succede con lo sposo. Quando ci troviamo al suo matrimonio, è chiaro che quello è sicuro di aver scelto la sposa che desiderava. Che senso avrebbe fargli notare eventuali difetti che solo noi, da fuori, possiamo notare? È questo che vorrebbero sentire lo sposo o i suoi parenti?»

I Maestri successivi impararono un importante principio etico da questa discussione tra i saggi alunni delle due Scuole. Ci possono essere delle situazioni nelle quali raccontare la verità assoluta può nuocere alle relazioni tra le persone. E non sempre quindi siamo tenuti a raccontarla.

Questo racconto descrive la rivalità storica fra le due scuole, di cui nel Talmud si parla spesso, e che dimostrano bene il pluralismo ebraico, la giusta convivenza di punti di vista diversa. “Ne emerge una riflessione interessante sul fatto che i principi – in questo caso la menzogna – vanno commisurati al loro risultato”, spiegano i relatori.

Il Maestro di bell’aspetto al bagno rituale

(Trattato di Bavà Metzià, pagina 84a)

Rabbì Yochanàn era consapevole di essere non solo molto saggio, ma anche molto bello d’aspetto.

Una volta arrivò addirittura a dire: «Solo io sono rimasto tra i belli di Gerusalemme».

Questa bellezza era confermata da tanti altri che arrivavano a dire: «Chi volesse vedere qualcosa che assomigli alla bellezza di rabbì Yochanàn, prenda dalla fucina del fabbro un bicchiere d’argento appena formato, lo riempia con i semi del melograno rosso, metta un diadema di rose rosse sul bordo del bicchiere, e lo posizioni tra la luce e l’ombra. Tale splendore assomiglia alla bellezza di rabbì Yochanàn»

Rabbì Yochanàn voleva comunque mettere a disposizione del pubblico questo suo dono e aveva preso  l’abitudine di andarsi a sedere all’entrata del bagno rituale. Ogni donna ebrea dopo la pausa mensile ha infatti l’obbligo di immergersi nelle acque piovane. Questo rituale le permette di riprendere subito dopo l’intimità sospesa con suo marito.

Rabbì Yochanàn diceva infatti tra sé e sé: «Quando le figlie di Israele escono dopo aver compiuto il precetto dell’immersione nel miqwè, incontreranno me per primo, e così avranno dei figli sia belli come me, e sia studiosi di Torà come me».

Infatti il Maestro riuniva in sé queste due virtù, così diverse tra loro, la bellezza e l’attaccamento allo studio della Torà.

Gli altri Maestri però rinfacciavano questo strano comportamento a rabbì Yochanàn: «Maestro, non teme di essere toccato dall’istinto al male mettendosi in evidenza in modo così spudorato, davanti a tante donne desiderose di riprendere l’intimità famigliare?»

Disse loro rabbì Yochanàn: «Io provengo dalla discendenza di Giuseppe il Giusto, sul quale l’istinto al male non aveva potere, come è scritto: Giuseppe è un albero fruttifero, un albero fruttifero presso una fonte d’acqua (Genesi 49:22)».

Il patriarca Giuseppe era infatti quello che aveva resistito alle proposte indecenti della moglie di Potifar, suo padrone.

“Anche questo è un racconto problematico – spiega David Piazza -, pregno com’è di carica erotica. Qui ci vuole dire che Rav Yochanan – conosciuto per la sua bellezza – è disposto a correre il rischio, nella convinzione che la sua visione possa influenzare la genetica dei bambini che nasceranno”.