di Sonia Colombo
“Quello che stupisce in questa globalizzazione della nuova fruizione dei contenuti è lo straordinario successo delle serie israeliane.” Con queste parole David Piazza introduce il penultimo incontro della Giornata europea della cultura ebraica. Dopo la visione dei trailer delle più acclamate serie di stampo israeliano, dalle più storiche come In Treatment, talmente amata, grazie al suo format originale, da essere replicata in molti paesi tra cui l’Italia, e Prisoners of War, fino alle più recenti Shtisel, Fauda, Valley of Tears, The Beauty Queen of Jerusalem, When Heroes Fly e Tehran, la critica cinematografica Maria Rosa Mancuso e il regista e sceneggiatore Alex Infascelli cercano di rispondere alla domanda iniziale: come mai le serie israeliane, pur trattando temi particolari come la vita delle famiglie ortodosse o il terrorismo, hanno avuto un tale successo, non solo in Israele, ma in tutto il mondo?
Per rispondere alla questione, Mancuso parte da lontano e più precisamente da Romeo e Giulietta: nell’opera di Shakespeare i protagonisti provengono da famiglie in lotta tra loro e questo impedisce la relazione sentimentale tra i due giovani. È proprio questo ostacolo a rendere la storia interessante e universale. Secondo la critica cinematografica non ci sono più grandi ostacoli nella società laica; ecco quindi che le serie israeliane diventano intriganti e non solo perché sono divinamente scritte, dirette ed interpretate, ma perché dietro a storie semplici, emergono conflitti profondi a cui forse molti degli spettatori non sono più abituati. Davanti alla tavola con sopra la tovaglia cerata di Shitsel, diventata tanto familiare al pubblico, ci sono solo un padre rabbino e il figlio ribelle che “semplicemente” si parlano e secondo Mancuso qualcosa del genere, in Italia, non si vedeva da tanto tempo. “L’abbiamo visto palpitando come accade di rado in serie e cinema” – ha aggiunto la critica cinematografica.
Il successo delle serie israeliane, come anticipato, inizia con In Treatment, forse quella con più remake. Qui il successo è dettato sia dal tema: la psicanalisi (così profondamente legata all’ebraismo), sia dall’originale struttura modulare. Il protagonista è uno psicanalista che riceve un paziente al giorno per 5 giorni e il sesto, come accade con lo shabbath ( sarà casuale?), si riposa, sospende le sedute e si fa analizzare da un supervisor. Secondo Infascelli l’originalità di questa prima serie israeliana, nel remake italiano diretto da Saverio Costanzo e con protagonista Sergio Castellitto, ha catturato il cuore del pubblico italiano in un periodo dove di serie se ne vedevano poche. “In Treatment è arrivata nelle case degli italiani come una bomba e tutti se ne sono innamorati”, dichiara Infascelli, aggiungendo inoltre che noi non eravamo abituati ad una struttura così originale dove lo spettatore può scegliere di guardare la seduta psicanalitica del martedì perché s’innamora di quel paziente e magari ignorare quella del mercoledì. Inoltre nel remake italiano viene tolto il classico lettino da psicanalisi e viene introdotto un sistema frontale, dove paziente e medico chiacchierano, un po’ come in Shitsel, seppur con modalità ovviamente diverse.
Secondo il regista, il successo delle serie, non solo israeliane, è dettato da diversi fattori: il cinema, secondo il regista è per questioni tempistiche più sintetico, potrebbe essere paragonato alla poesia, mentre la serie è il romanzo, consente tempi lunghi, più narrativi. Questa dilatazione del tempo consente di approfondire anche i personaggi di contorno, così come accade nella vita reale. I personaggi secondari diventano coprotagonisti a livello emotivo e politico e, all’interno della trama, fungono da traghettatori, mentre i protagonisti diventano metaforicamente i passeggeri. In particolare, la bellezza delle serie israeliane è data da una narrazione, sia delle storie dei protagonisti, degli antagonisti, ma anche dei personaggi secondari, diretta, dirompente, semplice ed ancestrale.
David Piazza aggiunge che il successo delle serie israeliane è dovuto anche al fatto che si sono andati a toccare storie dolorose e di fragilità. Ad esempio in Valley of Tears si rievoca la drammatica guerra del Kippur; qui viene ucciso il mito dell’invincibilità degli israeliani, dato che non riescono a sconfiggere un attacco congiunto. Anche in Fauda si toccano temi scottanti, come l’occupazione, si tratteggiano in modo estremamente umano e profondo le storie sia della squadra antiterrorismo israeliana, che, in egual modo, anche le vicende della controparte, si scandagliano i sentimenti, le paure e le emozioni di ogni personaggio. In Tehran emerge la profonda umanità del capo del controspionaggio iraniano, quindi si analizzano l’animo e la storia familiare anche del più efferato terrorista. Grazie ai tempi dilatati la serie può permettersi di approfondire più storie e di indagare nella profondità dell’essere umano, anche del nemico.
Ecco forse perché il pubblico inizia ad interessarsi a storie, a tradizioni e a vicende storiche che non conosceva o che fino ad adesso aveva poco approfondito. “Come diceva Hitchcock, più il cattivo è riuscito, più è riuscito il film. Se faccio un film di guerra, non mi conviene sminuire il nemico.” – aggiunge Mancuso, sostenendo inoltre che Fauda è una serie complessa e, a questo proposito, il titolo significa caos e si usa questo termine quando un’azione sotto copertura non funziona. La critica cinematografica cita un episodio di Fauda, durante il quale la squadra s’infiltra ad un matrimonio; i soldati si fingono camerieri e tutto potrebbe funzionare se i pasticcini fossero tutti uguali, ma la loro copertura salta proprio perché i dolci che portano non sono gli stessi conosciuti dalle famiglie degli sposi. Anche in Tehran, la protagonista, una hacker di origini iraniane, ma residente in Israele, torna nel suo paese d’origine, da infiltrata, ma commette un errore già nel primo episodio: per colpa di una reazione ad un’avance da parte di un titolare, viene smascherata e resa prigioniera in territorio nemico. Ecco che il caos, l’errore, consente agli ideatori delle serie israeliane di incentrare le vicende sulle emozioni dei personaggi. Nel cinema americano, per lo meno un tempo, i cattivi erano quasi caricaturali, mentre la forza dell’ambiguità dei cattivi delle serie israeliane, dona, secondo Infascelli, bellezza, profondità e intrigo alle serie israeliane. Se i registi regalano umanità ad entrambe le squadre, lo spettatore è costretto a porsi delle domande, ad indagare dentro se stesso e questo processo alza il valore del format.
Il confronto con cinema e serie italiane
A questo proposito Mancuso si chiede quindi quale regista italiano o anche europeo, abbia il coraggio oggi di confrontarsi con temi profondi come la guerra o anche solo la difficoltà di sposarsi. Secondo Infascelli noi italiani non abbiamo una realtà così complessa, non dobbiamo lottare continuamente tra la vita e la morte, i nostri animi si sono intiepiditi e quindi il cinema perde la sua urgenza, viene privato del suo valore catartico. Aggiunge Piazza che nelle serie israeliane, la bellezza è data anche dalla questione dell’identità: la protagonista di Tehran, ritrovando il suo paese d’origine, la famiglia, non sa più chi sia e quale sia la sua casa.
Perché in Italia non si possono toccare tematiche più profonde? Lo chiede Mancuso, ma lo domanda anche il pubblico. Infascelli cita una serie che ha diretto prima del 2008: Nel nome del male, dove affronta il tema delle sette sataniche, ma per lui sono state solo uno spunto per parlare di rottura, di rapporto tra bene e male, di contrasti familiari. Il regista sostiene che il format è stato subito stroncato, perché secondo lui in Italia è difficile fare film o serie su temi scottanti, così come avviene nelle serie israeliane. Appena qualcuno tenta di fare un film sull’eroina negli anni ‘ 70, sulla CIA o sulle brigate rosse, trova delle difficoltà. Mancuso prima risponde con una battuta: “ Se io trovo un altro architetto nelle serie italiane, mi metto ad urlare” Poi torna più seria e aggiunge che nelle serie israeliane, come in Shitsel, in una cucina piccola, davanti ad un tavolo piccolo, ricoperto da una tovaglia di plastica, sempre la stessa, si scandagliano le più profonde pieghe dell’animo umano dei personaggi; invece nelle serie e nei film italiani si raccontano storie di famiglie indigenti che però vivono in case grandi, riccamente, arredate e affacciate su splendidi panorami urbani e lei si chiede che senso abbia raccontare di persone povere che vivono in simili contesti.
La domanda, per questioni tempistiche, è rimasta senza risposta, ma forse implicitamente Mancuso ha trovato la ragione per la quale le serie israeliane, pur trattando temi lontani e difficili, hanno avuto così successo: perché sono profonde, autentiche, trattano temi urgenti di cui il pubblico ha bisogno e sono tremendamente belle e coinvolgenti, come lo è stata tutta la Giornata europea della cultura ebraica, incentrata appunto sulla bellezza. Credo avessimo un urgente bisogno di questo: di bellezza.