di David Zebuloni
Vita e passioni di Luca Barbareschi, che il 15 settembre condurrà, al Teatro Franco Parenti (ore 10.15), il modulo della Giornata Europea della Cultura Ebraica sul rapporto tra modernità ed ebraicità nel cinema, prendendo spunto dal suo ultimo lavoro, Il Penitente. Un’intervista
Il 15 settembre Luca Barbareschi condurrà il modulo su Ebraismo e Cinema alla Giornata Europea della Cultura Ebraica a Milano. Il tema: la famiglia. Ironico, no? Nonostante abbia avuto un’infanzia dolorosa, nonostante sia stato abbandonato dalla madre all’età di sei anni, nonostante si sia sposato più e più volte in cerca del vero amore, l’attore, regista, produttore ed ex deputato viene associato al tema della famiglia. Marito scostante, padre devoto, ebreo vigoroso, lettore insaziabile, artista geniale, regista eclettico, uomo brillante, intellettuale sfrontato, pensatore ribelle, politico anticonformista, attore intenso e totale, Barbareschi si è sempre messo a nudo raccontando i traumi della sua vita: l’abbandono da parte della madre, prima di tutto, che ha lasciato crepe da cui oggi entra la luce che illumina la sua vita. La sua carriera. La sua famiglia. Lo incontro virtualmente per parlare dei suoi amori, delle sue opere, dei suoi sogni, dei suoi rimpianti, delle sue paure. Barbareschi si collega dall’ufficio, in casa sua. Alle spalle, un’imponente libreria piena di grossi volumi e una bandiera d’Israele. In un attimo vengo travolto da un fiume in piena di ricordi, aneddoti, emozioni, riflessioni. Senza filtri. Senza pudore. L’attore pluripremiato, d’altronde, dice sempre la verità. La sua verità. È il suo flusso di coscienza a parlare, a gridare, senza mai prendere fiato. O si corre con lui, o si rimane indietro. Camminare non è un’alternativa. Barbareschi ha ancora molti ruoli da interpretare, molti libri da terminare, molti sogni da realizzare. E non ha tempo da perdere.
Viviamo in un’epoca in cui molti nascondono la propria ebraicità, la rinnegano, la reprimono. Ci vedono una minaccia, un pericolo. E fuggono. Lei invece, sembra vivere una vera e propria renaissance ebraica, entusiasta della sua identità ritrovata.
Io ho sempre considerato la fede un fatto privato. È una cosa complessa il rapporto con Dio, molto delicata. Eppure, sono da sempre molto orgoglioso delle mie radici, perché me le sono dovute coltivare da solo. Forse, è stata l’intellettualità ebraica che ho scoperto quando mi sono trasferito negli Stati Uniti ad avermi conquistato definitivamente. Ricordo in particolare una cena illuminante a Chicago a casa di Saul Bellow. Ricordo tutti i libri di Chaim Potok, che furono per me un booster incredibile. Godevo a leggerli come a mangiare del buon pane e formaggio. Quarant’anni dopo, rivedendo Shtisel, mi sono innamorato di nuovo di questo mondo paradossale, arcaico, strano, antico, ma iper valoriale. C’è dentro tutto: il pianto, il riso e persino l’erotismo.
Il tema dell’ebraicità è molto presente anche nel suo ultimo film: Il penitente. Cosa l’ha ispirata?
Questo film nasce da un fatto di cronaca. È la storia di uno psichiatra ebreo che affronta una crisi professionale e morale quando rifiuta di testimoniare in tribunale a favore di un paziente accusato di avere compiuto una strage. Ciò che mi ha ispirato è lo sganciamento dal pensiero spinoziano, razionale, per andare incontro ad un pensiero magico. Cosa accade nel cuore di un uomo che scopre in maniera così profonda il rapporto con la fede, di fronte a quella che è la gogna giudiziaria? Come si tiene il boccino dentro? Questo mi tocca molto.
Cos’è per lei la fede?
Un lavoro identitario.
Il cervello è stupido. Va allenato, altrimenti non funziona. La kasherut non riguarda solo gli alimenti che inseriamo nel nostro corpo, ma anche le informazioni che inseriamo nel nostro cervello. Tutto ciò richiede molto lavoro.
L’identità ebraica, invece, cos’è?
Io ho avuto diverse mogli non ebree. Forse, l’attuale è l’unica con cui ci capiamo veramente. Eppure, dico una cosa delicata: le radici contano. L’identità conta. Io ho avuto una non-fidanzata, americana ed ebrea, che mi ha amato tutta la vita. Non abbiamo mai fatto nulla insieme, ma ogni volta che la vedo è come se fosse sempre il giorno prima. Ha dentro un’anima ebraica così potente lei, che capisce tutto di me. Capisce le mie intermittenze di cuore. Capisce la mia malinconia eterna. Ecco, lei sarebbe stata la mia moglie ideale, ma ci siamo conosciuti troppo giovani e ci siamo subito persi. Quando ci vediamo oggi, piangiamo.
Non a caso parteciperà alla Giornata Europea della Cultura Ebraica, sul tema della famiglia. Forse, il tema a lei più caro, il più impellente. Mi racconta la casa in cui è cresciuto?
La mia famiglia non ha mai avuto niente di ebraico nella sua quotidianità. Mia madre era ebrea, mia nonna è stata uccisa a Treblinka, mio padre è stato capo dei partigiani. Era un vecchio socialista. Sono cresciuto andando d’estate nei kibbutzim a raccogliere le arance, malgrado il destino mi abbia poi condotto a New York e a una vita di sesso, droga e rock’n’roll. Mia madre mi ha abbandonato quando avevo sei anni e ancora oggi mi domando come sia possibile abbandonare un figlio. Eppure, devo una cosa a mia madre. Una cosa per la quale la benedirò tutta la vita, anche se mi ha provocato un dolore infinito. Lei non sapeva fare la madre, ma mi ha sempre mandato dei libri in regalo. Io ho in casa trentaduemila volumi tutti archiviati. Ecco, credo di leggere così tanto perché in ogni libro cerco di capire il mistero di mia madre.
E ha risolto il suo mistero?
Non ancora, ma devo a lei la ricerca. Se sono oggi un uomo abbastanza equilibrato, anche se mia moglie direbbe diversamente, è anche grazie a questo dolore. Grazie al fatto di essere caduto mille volte ed essermi rialzato. Grazie a mia madre.
Di solito l’uomo scappa dai propri traumi. Nonostante sua madre sia il grande trauma della sua vita, non scappa da lei. Anzi, la rincorre. Così come rincorre la sua ebraicità, ovvero l’unica eredità che sua mamma le ha lasciato.
La cosa peggiore che possa fare un individuo è scappare dai propri fantasmi e non affrontarli. La cosa peggiore che possa fare un ragazzo è trascorrere la vita a incolpare qualcun altro delle proprie mancanze. Ognuno è artefice della propria esistenza. Io ho assolto mia madre da qualsiasi colpa. La amo e ci parlo nei miei pensieri, nei miei sogni. Assomiglio fisicamente a mio padre, ma sono identico a lei. Ho la sua intelligenza, il suo senso dello humor, la sua voglia di provocare, la sua irresponsabilità. D’altronde, ne ho fatte di cazzate pure io.
Quali valori ha voluto trasmettere ai suoi figli?
Io ho sei figli e li ho salvati perché di Shabbat non usiamo i device. Non dico che siamo ortodossi, perché sarei un ipocrita, ma li ho abituati piuttosto a dedicarsi a parlare. Oggi i grandi mi ringraziano, perché sono meravigliosamente strutturati. Mi dicono che sono stato un padre difficile, ma ho dato loro un esempio di coerenza. Ho sempre detto loro la verità.
Se c’è una cosa che le invidio, sono le sue amicizie tra i personaggi più illustri dell’ebraismo moderno. Rav Sacks, per esempio. Il suo maestro. Cos’ha imparato da lui?
Ho imparato la tolleranza. La dignità delle differenze. Lui è stato uno straordinario divulgatore di sapienza. Era un trainer del cervello. Tirava fuori da ognuno il meglio di sé.
Dal suo grande amico Roman Polański, invece, cos’ha imparato?
L’umiltà del lavoro. Roman è un artigiano: pulisce per terra dopo aver finito le riprese. Dio, d’altronde, si trova sempre nel dettaglio.
E l’etichetta di trasgressivo, gliel’hanno appiccicata o se l’è meritata?
È un’etichetta che mi sono dato da solo per prendere in giro la stampa. Io mi alzo alle cinque del mattino da cinquant’anni. Cammino, leggo, lavoro moltissimo. Altro che trasgressivo. Io sono piuttosto un uomo libero. Io racconto la mia confusione, dico sempre la verità. Non provoco.
Qual è il prezzo da pagare per essere un uomo libero? Per dire sempre la verità?
È un lusso straordinario. Io sono l’uomo più ricco del mondo. Sa perché? Perché dicendo sempre la verità, non ho paura di niente.
Nemmeno di questo antisemitismo risorto?
Cos’è l’antisemitismo? Un odio per l’ebreo basato sul nulla. L’ebreo è sempre troppo scuro o troppo chiaro, troppo ricco o troppo povero, troppo intelligente o troppo stupido. Il nulla, per l’appunto. Tuttavia, nei momenti di crisi della civiltà democratica, l’ebreo è il perfetto capro espiatorio dell’imbecillità occidentale. Ecco, l’Occidente oggi ha deciso di suicidarsi. L’Europa alla quale appartengo non è questa, ma quella dei miei padri.