di Stefano Levi Della Torre
Chi trentamila anni fa disegnava col carbone e l’ocra rossa dei bisonti sulla parete di roccia delle grotte di Altamira, metteva in scena una sorprendente possibilità: quella di tradurre l’esperienza immediata dei bisonti in immagini differite, cioè in assenza di bisonti. Immagini che non hanno né i movimenti, né la vita, né gli odori, né i rumori, né le impressioni tattili dei bisonti. Eppure evocavano nei guardanti tutte quelle esperienze di vita animale e umana. Questo fatto conferiva al linguaggio pittorico, e al linguaggio in quanto tale, una qualità magica (in senso stretto o metaforico): quella di affrancare l’esperienza diretta dalla contingenza e dalla caducità per perpetuarla e immortalarla, trasferendo il presente nella memoria duratura dell’assente. Probabilmente in quei nostri predecessori quelle immagini producevano emozioni, stupore e piacere, e a loro modo parevano “belle”; certo paiono belle a noi. Picasso, che per la sua autorevolezza poteva permettersi battute snob, diceva che Altamira è un vertice dopo il quale tutta la storia dell’arte non è che decadenza. Perché Altamira ci pare un atto originale e originario di una possibilità, quella dell’invenzione di un rapporto col mondo, necessario alla vita umana, e quindi sono anche un’invenzione dell’umano. Un’invenzione tramite un’altra invenzione, quella di trasformare un tizzone e un pezzo d’ocra in uno strumento tecnico, in una protesi che fa d’un uomo un pittore.
Nella Genesi, questo atto d’origine dell’umano in quanto animale “culturale”, è espresso in questi termini:
Ora, Adonai Elohim aveva già formato dalla terra tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo. Li condusse quindi all’Adam per vedere con qual nome li avrebbe chiamati, poiché quel nome che egli avrebbe imposto ad ogni vivente, quello fosse il suo nome. (Gen.2, 19).
“Il suo nome”, cioè la sua essenza (per l’uomo): creazione del linguaggio, e nel linguaggio (nella parola e nella rappresentazione), creazione del rapporto umano col mondo e del dominio mentale umano in questo rapporto.
I bisonti di Altamira rappresentano nella bellezza una originaria possibilità umana di mettere in scena il proprio rapporto col mondo. E di qui traggo la mia ipotesi iniziale: la possibilità della bellezza sta nella bellezza della possibilità.
Ora, la possibilità è uno stato di fatto che lievita verso un assetto nuovo. È la rivelazione dell’energia potenziale che il passato ha accumulato nel formare il presente, per cui il presente, malgrado l’inerzia della sua immensa massa, si apre qua e là alla trasformazione e al futuro. La possibilità è la messa in scena di un movimento inscritto nello stato ripetitivo delle cose, un movimento in cui si rispecchia per analogia quello della vita, della natura e della storia, dove ripetizione e variazione di continuo si accavallano. In questo, mi sembra, riscontriamo la bellezza nei suoi moventi di fondo e nelle sue variazioni a seconda del gusto delle epoche, delle culture e delle persone.
Percepiamo la bellezza nella sorpresa di una rivelazione: rivelazione di una possibilità inaspettata. La bellezza non è un ente in sé, non è un assoluto anche quando aspira ad esserlo; è relativa perché è un’esperienza di relazione: è argomento di un giudizio, relazione tra un soggetto giudicante e un oggetto giudicato. E se l’oggetto indefinitamente sfugge, a maggior ragione il soggetto vorrebbe catturarlo e imprigionarlo in una forma o in una definizione o in un concetto o teoria per riuscire a convivere con esso dominando la relazione secondo i propri criteri, presupposti e desideri. Cogliamo la bellezza quando un apparire ci presenta i caratteri di un inedito che però ci ricorda qualcosa, di un originale o originario che però evoca reminiscenze più profonde e più estese della nostra consapevolezza. L’apparire lo sentiamo allora con lo spessore del tempo vissuto che si apre a un inatteso messo in atto e ci sorprende. Così la bellezza mette in scena l’estensione filogenetica della vita: il suo derivare da un terreno esteso di esistenze, il suo combinarsi e concentrarsi nella singolarità di un fatto (di un’immagine, di una musica, di un pensiero, di un racconto), in cui l’accaduto ritorna all’accadere.
Ma la bellezza è relativa anche perché per mostrarsi ha bisogno di un termine di paragone che la distingua, come lo straordinario ha bisogno dell’ordinario per essere percepito. E se la possibilità è una divergenza dallo stato delle cose, così la bellezza ha in sé il carattere di una divergenza. La bellezza di un pensiero ci appare sullo sfondo dell’ottusità, la bellezza di un suono ci si rivela sullo sfondo del silenzio e la bellezza del silenzio sullo sfondo di un rumore o di un suono, la bellezza di un’immagine ci si rivela sullo sfondo di uno spazio muto o viceversa; così la bellezza di un contatto, di un odore , di un gusto, di una parola e viceversa. Sullo sfondo implicito di un’alternativa cogliamo nella possibilità uno stato nascente, originario, un divenire che diverge dal già avvenuto e dal già scontato. L’abitudine riduce il mondo, le cose e noi stessi a un già visto a scapito dell’imprevisto, a un dato che per quiescenza ha rinunciato all’inquietudine dell’interrogazione e della sorpresa, dunque non si rivela ma si vela nella passività inespressiva.
Un magnifico quadro alla parete si copre, nei giorni, della polvere dell’abitudine, si riduce via via a componente tra altre dell’ambiente in cui si trova e la sua voce all’inizio autorevole diventa un bisbiglio tra bisbigli o si perde. Viceversa, cinque mele su uno straccio nella cucina di Cézanne emergono dalla loro natura vegetale e utilità commestibile per farsi immagine; eppure la loro funzione di frutta da mangiare non si estingue, ma viene sussunta al loro trascendere in immagine, in gesto di pennello e di colore, che si fa anche mela. Se poi la si mangia, assurge all’estetica dei sapori, del gusto e del piacere fisico. Il piacere, il gusto sono sintomi di una relazione estetica con la mela, come lo è d’altra parte e in altro modo la pittura della mela. Piacere e gusto sono termini che per dilatazione semantica e per trasferimento sinestetico entrano nel vocabolario dell’estetica filosofica in generale. La quale, ricorrendo ai termini di “gusto” e “piacere”, non dimentica la propria origine plebea, legata ai sensi e al corpo, anche se, come Cenerentola, è assurta ai fasti principeschi dell’intelletto e dello spirito.
La bellezza non è un rifiuto della materia e dell’utile per farsi spirito, è piuttosto la trasfigurazione dei sensi per farsi senso. O anche senso del non-senso, che destruttura il senso dato per una nuova apertura. I sensi sono la possibilità di una relazione vivente con le cose e col mondo, e la bellezza si manifesta nell’avvertire emozionato questa possibilità di relazione. Se nell’Apollo e Dafne Bernini rappresenta un gesto di leggerezza ascensionale e di inseguimento e di fuga concitata, non è per negare il marmo, ma anzi per esaltare la possibilità nascosta nello stato canonico di quella materia, che è pesante, inerte e di astratta bianchezza inorganica. Non nega la materia, anzi si vale del suo stato minerale primitivo per rivelarne una possibilità paradossale e inaspettata. Il luogo comune che attribuisce ai tramonti un’esperienza di bellezza, è perché il tramonto è rivelazione di una possibilità sorprendente nello stato normale dei cieli diurni e notturni.
Nei crepuscoli, e non nel culmine del mezzogiorno o della mezzanotte, gli ebrei colgono il passaggio da un giorno all’altro, incontro tra una morte e una nascita: la possibilità della durata non sta in una cesura ma nel passaggio del “testimone” dor le-dor, di generazione in generazione: non l’opposizione tra morte e nascita, tra il giorno e la notte, ma la loro reciproca implicazione. È’rev, “sera” in ebraico, reca nell’etimo l’idea di “implicazione”. È un modo di pensare.
Ho descritto la possibilità come energia che, carica del passato, si apre alla trasformazione: fa del passato una gestante che sta per partorire un figlio o figlia imprevedibile (come tutti i figli o figlie), oppure degenera e rimbambisce. Questo schema lo si vede nel profeta biblico. Il profeta non è il veggente che prevede, come Cassandra, ciò che fatalmente avverrà. Il profeta elabora invece la possibilità, indica la breccia possibile nelle tendenze che se continuate portano alla rovina. E questa breccia si anima di una teshuvà, cioè di un ritorno, della reminiscenza di un momento iniziatico pregresso, di una premessa che è la Promessa di poter vivere e durare nel mondo attraverso e malgrado i suoi mutamenti e le sue catastrofi. Nella religione biblica, questa promessa si esprime nel Patto tra Elohim e Israele: la Berit, che è un impegno e vincolo reciproco. Ma questo patto specifico è facile generalizzarlo ad ogni “creatura”, e allora lo vediamo come figura metaforica del fatto che ogni vivente è animato dal comando di crescere e moltiplicarsi. L’energia della promessa permane però se essa non è mai mantenuta fino in fondo, e resta annuncio di una duratura possibilità, di un conatus ripetuto (dice Spinoza), non di una pacificata conclusione, che in verità sarebbe la morte. La morte che, per scaramanzia, spesso la si vorrebbe ribaltare in vita eterna, immaginandola come soluzione felice o finalmente giusta della Promessa.
Da un lato, la fatalità annunciata dal veggente porta alla bellezza della tragedia, alla possibilità umana di conoscere se stesso nel mondo riconoscendo la necessità che lo soverchia; dall’altro la profezia, che indica la breccia verso una salvezza, dove la possibilità è declinata nel senso della speranza.