“Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa”. Presentato in via Guastalla il libro di Bruno Dardani

Kesher

di Nathan Greppi
Nel volume, presentato domenica 6 aprile presso la Sinagoga Centrale di Via Guastalla in un incontro organizzato da Kesher, il giornalista, alterna ricordi personali dei suoi viaggi e analisi basate sui fatti, e tratta i falsi miti su Israele e i palestinesi. Di questo e altro hanno parlato gli altri relatori.

 

Dopo il 7 ottobre, Israele si è ritrovato a dover affrontare non una bensì due guerre, diverse per modalità ma interconnesse tra di loro: se la prima guerra, quella reale, ha riconfermato la superiorità militare dello Stato Ebraico, la guerra mediatica al contrario sembra aver visto prevalere Hamas, con le piazze di tutto il mondo che hanno visto i manifestanti gridare contro Israele e inneggiare al terrorismo islamista. Ciò è il frutto di tutta una serie di pregiudizi, preconcetti e luoghi comuni che da decenni inquinano il dibattito pubblico su Israele.

Chi invece ha saputo guardare oltre i preconcetti è il giornalista Bruno Dardani (a sinistra nella foto), già inviato per oltre vent’anni de Il Sole 24 Ore, il quale ha recentemente pubblicato il libro Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa. Verità e distorsioni su Israele (Guerini e Associati). Il volume è stato presentato domenica 6 aprile presso la Sinagoga Centrale di Via Guastalla, in un incontro organizzato da Kesher.

Le ragioni di ognuno per difendere Israele

Ognuno dei relatori ha voluto spiegare quali ragioni lo spingono a stare dalla parte d’Israele, nonostante nessuno di loro fosse ebreo: il giornalista Alessandro Litta Modignani (al centro), presidente dell’Associazione Milanese Pro Israele e già attivista del Partito Radicale, ha raccontato di non saper dire con esattezza dove nasce la sua passione per Israele, ma che è rimasto influenzato dai racconti di Alberto Belli Paci, figlio di Liliana Segre e compagno di classe di Modignani quand’erano alle medie. “Io sono di madre armena, e può darsi che il fatto che il popolo armeno sia stato sterminato da un popolo musulmano, qualcosa mi abbia detto”, ha ipotizzato Modignani.

Gli ha fatto eco l’opinionista e scrittore Niram Ferretti (a destra), direttore del sito L’Informale, il quale ha contrapposto la glorificazione della morte da parte della Fratellanza Musulmana, movimento di cui Hamas rappresenta il ramo palestinese, alla celebrazione della vita nella tradizione ebraica. Ha sottolineato l’importanza del fatto che nel suo libro Dardani parte dalla sua esperienza vissuta, il che “dà un valore ancora maggiore al libro”. Ha aggiunto che il libro “nasce da una testimonianza del cuore. E il cuore, nell’ebraismo, è un organo di conoscenza, qualcosa che permette di conoscere la realtà”.

Lo stesso Dardani, intervenendo per ultimo, ha dichiarato che quello che ha scritto è “un libro che ha significato la mia vita. Ho aspettato del tempo per scriverlo”. Infatti, nel corso della sua carriera da giornalista, egli è stato spesso inviato in Israele, e nel corso degli anni si è innamorato di questo paese e della sua gente.

Storia e luoghi comuni

Alternando ricordi personali dei suoi viaggi e analisi basate sui fatti, il libro di Dardani tratta vari temi, dalla confutazione del presunto razzismo in Israele verso gli arabi alle femministe che non hanno voluto ascoltare le donne israeliane violentate il 7 ottobre.

Un tema sul quale i relatori si sono particolarmente soffermati è il rapporto tra Gerusalemme e la religione islamica, alla luce delle numerose controversie sulla Moschea di Al-Aqsa: in particolare, Dardani ha spiegato che “ho tentato di analizzare con i mezzi che avevo, parlando anche con dei religiosi, questa questione”. Ha spiegato che non vi è alcuna menzione diretta di Gerusalemme nel Corano, e Maometto non è mai stato nella città santa.

Ha inoltre ricordato che “l’identità palestinese nasce intorno agli anni ’60, dopo la nascita dello Stato d’Israele”, perché prima del 1948 gli occupanti inglesi identificavano come “palestinesi” tutti gli abitanti del territorio, sia ebrei che arabi. Tanto che il noto quotidiano israeliano in lingua inglese Jerusalem Post in origine si chiamava Palestine Post.

Lo sguardo occidentale

Non sono mancate aspre critiche al modo in cui i media italiani trattano il conflitto israelo-palestinese: in particolare, è stato ricordato l’episodio dei due riservisti israeliani che, il 12 ottobre 2000, finirono per sbaglio a Ramallah e vennero brutalmente linciati da una folla palestinese in una caserma di polizia. Dopo che i giornalisti di Mediaset filmarono l’accaduto e le immagini fecero il giro del mondo, il corrispondente della Rai Riccardo Cristiano si affrettò a scrivere all’Autorità Nazionale Palestinese che la Rai non aveva niente a che fare con i filmati, dichiarandosi fedele alle regole d’ingaggio dell’ANP e puntando il dito contro i colleghi di Mediaset, che dovettero lasciare la Cisgiordania per non subire rappresaglie.

È stato rimproverato agli occidentali di voler guardare la questione israelo-palestinese attraverso un filtro occidentale, senza calarsi davvero nella mentalità dei popoli che abitano la regione. Ferretti, in particolare, ha ricordato come Hamas, per rendersi più presentabile agli occhi del pubblico occidentale, abbia in apparenza modificato la parte del suo statuto che invita ad uccidere tutti gli ebrei, dichiarando che i loro obiettivi sarebbero solo i sionisti. “Questo documento va letto per capire come è successo il 7 ottobre. Perché il 7 ottobre è stato la diretta conseguenza di questo documento”, ha spiegato.