di Daniel Fishman
Conosco Davide Jabes dagli anni Novanta, quando viveva a Milano e collaborava con il giornale del Dor Hemsheh. Mi ricordavo della sua passione per la storia del Ventesimo secolo, per cui non sono rimasto stupito quando ho saputo che stava lavorando a una biografia di Adolf Hitler.
Spesso riteniamo che non si possa più aggiungere nulla alla conoscenza che abbiamo della parabola nazista, ma non è così. La ricerca storica prosegue nella ricerca di fonti e documenti attraverso rinvenimenti, l’apertura di fondi prima negati alla ricerca e così via. Questo perché la sinistra modernità della figura del Führer ci interroga ancora oggi sulla fortuna del modello di governo totalitario, sul controllo sulle masse e le sfide che i governi democratici devono affrontare.
Il suo nuovo libro Il leader. Adolf Hitler: la manipolazione, il consenso, il potere, edito da Solferino è uscito in libreria a ottobre, rappresenta un’occasione per considerare sotto una luce nuova alcuni temi di attualità.
Come sei diventato uno storico?
Sin da bambino mi chiedevo perché a casa mia molte cose fossero differenti rispetto alle altre famiglie. Mia madre è napoletana, ma mio padre è nato in Egitto, come i suoi genitori, e il suo passato è ricco di avvenimenti che all’epoca trovavo estremamente esotici. Inoltre, come la gran parte degli ebrei egiziani, è di madrelingua francese.
In effetti, credo che la mia prima indagine storica sia stata sulle origini della mia famiglia.
Quali sono i tuoi campi di ricerca?
Mi sono laureato sulla storia della seconda metà del Settecento toscano, e successivamente ho conseguito un PhD con una tesi sulle riforme giuseppine in Austria. Ho approfondito lo studio dell’abolizione degli ordini contemplativi e la Patente di tolleranza seguita dall’Editto di Tolleranza che riguardava gli ebrei, e la sfida che queste riforme posero alla Chiesa di Roma.
Per l’Università di Siena ho lavorato sui perseguitati toscani durante il fascismo. Oggi mi vengono chieste soprattutto consulenze sulla Seconda guerra mondiale e il primo dopoguerra in Italia. Ma mi sono occupato anche di altri settori di ricerca.
Come è nato il tuo interesse per Hitler?
È stato molto presto l’elefante nella stanza: a casa e a scuola non se ne parlava mai, sebbene fosse costantemente citato da tutti i mezzi di comunicazione. Inoltre, come tanti ebrei avevo la necessità di comprendere le ragioni dell’odio nazista. La figura di Hitler era un catalizzatore, un simbolo del male assoluto e di tutto ciò che rappresentava dolore e sofferenza.
Mi fu spiegato per la prima volta in termini biblici, come l’ultimo dei nemici del popolo d’Israele, un moderno Aman. Però sin da ragazzo quella spiegazione non mi convinse. In Aman, come nei romani precristiani, non c’era un odio millenario, né una questione razziale.
Perché una nuova biografia di Hitler?
Perché in Italia l’Accademia ha lasciato la divulgazione storica in mano ai pubblicisti. Il personaggio Hitler è stato oggetto di alcune tra le migliori biografie storiche esistenti: negli anni settanta Joachim Fest ne ha tracciato un profilo molto sofisticato dal punto di linguistico, un’opera di alto valore letterario, coniando termini come “non persona”.
Gli storici Ian Kershaw e Volker Ullrich hanno consegnato due biografie monumentali (quella di Kershaw supera le 2800 pagine).
Ma oggi l’unica biografia divulgativa in circolazione in Italia – ripubblicata ormai da più di trent’anni – è quella di Antonio Spinosa, un testo che mostra tutti i segni del tempo e che propone una visione che attinge sia da testi scientifici sia da pubblicistica dallo scarso o nullo valore scientifico.
In questo senso Il leader è anche un manifesto per la “vera Storia”, parafrasando il fotografo Gianni Berengo Gardin, un invito all’accademia e ai miei colleghi a misurarsi con la divulgazione per non lasciare il campo libero a chi attraverso l’editoria generalista crea false verità e fa cattiva storia. In particolare, l’abitudine a non citare le fonti si fa strada anche tra chi ha una formazione accademica. Credo che non sia più accettabile.
Quali ritieni siano i punti di forza di questa biografia? Ritieni di aver contribuito alla conoscenza del personaggio e del suo tempo?
In buona sostanza ho voluto riportare al grande pubblico il meglio di quanto è stato scritto negli ultimi anni, e in una forma leggibile e sufficientemente breve. Per me è importante che il lettore comprenda con chiarezza quali erano i reali obiettivi di Hitler, e sgombrare il campo dai miti e dai principali stereotipi sul personaggio.
Per esempio, sulla Russia spesso si è detto che se Hitler si fosse concentrato sul Mediterraneo avrebbe potuto vincere la guerra. Ma questa affermazione non tiene in considerazione il fatto che certe scelte hanno delle cause politiche non aggirabili: Hitler invase l’Unione Sovietica perché era una necessità storica per il suo regime. Non era una delle tante scelte possibili, era l’unica scelta possibile. L’Unione Sovietica era infatti per Hitler la centrale europea dell’ebraismo internazionale (secondo i deliri nazionalsocialisti, l’organizzazione politico-razziale dedita alla conquista del mondo), un’entità politica inesistente nella realtà, ma basilare nella visione geopolitica nazista.
Ci tengo inoltre a sottolineare di essere stato fortunato ad avvalermi della collaborazione di straordinari professionisti come Alessandro Romanello e Michela Gallio, che hanno reso il testo più scorrevole e gradevole, stante il tema non lo sia affatto.
Quali sono i tuoi prossimi progetti di ricerca?
Mi sono accorto che in ogni mio progetto ricorre il tema di riportare la divulgazione storica a un livello alto, che non significa affatto di maggiore complessità, ma di maggior rigore. Credo infatti che l’esposizione dei fatti debba essere quanto più rigorosa possibile, e debba partire esclusivamente da elementi concreti sostanziati dalla citazione delle fonti. Sarà poi il lettore a decidere se la mia interpretazione è convincente o meno.
In proposito, mi sembra che la scuola anglosassone non abbia mai reciso il legame tra l’aspetto divulgativo e l’accademia. In Italia, a parte notevoli eccezioni come Alessandro Barbero, i giovani Fabio De Ninno ed Emiliano Beri, non mi sembra ci siano grandi segnali positivi in questo senso. Al contrario, vedo il pericolo della falsificazione del passato forte come non mai.
* Davide Franco Jabes è nato a Milano nel 1964. Romano d’adozione, ha conseguito la laurea in Storia moderna all’Università di Siena, e il dottorato Storia alla University of York (UK). Di professione storico, lavora come ricercatore indipendente in ambito accademico e svolge attività di consulenza editoriale per alcune delle maggiori case editrici italiane e per produzioni televisive. Ha curato diversi saggi di argomento bellico, in particolare sulla Seconda guerra mondiale, e ha pubblicato i libri Aircraft Carrier Impero con Stefano Sappino e tradotto in italiano per i tipi LEG (la portaerei Impero); Macchi C.202 Folgore con Alessandro Romanello e Niccolò Tognarini oltre a vari saggi introduttivi sui grandi temi della guerra.