di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita]
Per la coscienza occidentale Bagdad è un nome mitico, il cui potenziale fantasmatico è appena indebolito dalle ultime vicende storiche della fine del Novecento o dell’inizio del nuovo secolo. Ma per gli ebrei iracheni sparsi nel mondo (in Israele, in Inghilterra, in America, in India e in Cina), il nome della città sul Tigri rappresenta un insieme di ricordi molto più concreti. Questo mese vorrei evocare tre autori ebrei di origine irachena, ognuno dei quali, a modo suo e nella propria lingua, ha trasfigurato nella sua scrittura il vissuto ebraico bagdadita.
Il primo autore è lo scrittore israeliano Eli Amir, la cui opera letteraria è in grande parte una testimonianza della vita ebraica a Bagdad prima dell’Operazione Ezra e Neemia (1951-1952) che ha portato in Israele circa 130.000 ebrei iracheni dal loro paese ormai diventato invivibile. Uno dei pochi libri di Amir ad essere stato tradotto in italiano è Tarnegol kaparot (letteralmente “il gallo delle espiazioni”) pubblicato nel 1983 (2015 in traduzione italiana con il titolo di È questa la terra promessa?). In questo romanzo autobiografico il doppio narrativo dell’autore Nuri è confrontato alla microsocietà soffocante del kibbutz che contrasta fortemente con la vita agiata che aveva avuto a Bagdad. Il sistema collettivista instaurato da pionieri venuti dall’Europa dell’est è difficilmente compatibile con l’individualismo dei giovani ragazzi orientali, abituati agli standard coloniali di un Paese profondamente anglicizzato (nonostante il fatto che, strettamente parlando, la dominazione britannica non era durata più di 15 anni, cioè 1917-1932).
La descrizione più estesa della vita ebraica a Bagdad si trova in un altro romanzo di Amir, Mafriah ha-yonim “Il liberatore dei piccioni” (1992), allusione a uno degli ultimi episodi del libro, dove il giovane eroe libera i piccioni dell’allevatore di colombe Abu Edward per castigarlo di avere denunciato un leader sionista condannato all’impiccagione. Il romanzo racconta gli ultimi mesi della presenza ebraica a Bagdad, poco prima del 1950, l’anno in cui Eli Amir lasciò l’Iraq per Israele.
Nell’intrigo complicato di questa cronaca di una fine annunciata (la fine dell’ebraismo bagdadita) si vede quanto i destini della borghesia ebraica di Bagdad siano legati a quelli della borghesia musulmana locale. Questo forte legame si manifesta fra l’altro quando gli ebrei cercano di fare intervenire le loro relazioni con i dignitari locali per fare liberare degli ebrei arrestati per sionismo o per comunismo. Questo romanzo, dove la morte coesiste con l’amore, ha ispirato il film Mafriah ha-yonim (Farewell Baghdad) (2014) che restituisce abbastanza bene l’atmosfera della Bagdad della fine degli anni 40. Il film è molto interessante dal punto di vista linguistico poiché molte repliche vengono recitate in arabo e alcune volte in giudeo-arabo, una varietà specificamente ebraica del dialetto bagdadita, abbastanza vicina al dialetto dei cristiani di Bagdad, ma ben diversa dal dialetto musulmano di questa città.
Un’eco similare della convivenza fra ebrei e musulmani nella Bagdad degli anni 40 ci è data da Sami Michael, soprattutto nel suo libro Sufah bein ha-deqalim (Tempesta tra le palme), pubblicato nel 1975 come un libro per ragazzi (2009 in traduzione italiana). Questo autore, di cui ho già parlato in una delle rubriche precedenti, a proposito del suo percorso dalla lingua araba alla lingua ebraica, racconta i suoi anni di militanza comunista, dove giovani ebrei benestanti si vergognavano di appartenere alla borghesia e lottavano contro la monarchia e la deriva autoritaria del Paese, insieme ai loro compagni di partito musulmani. Uno dei temi del libro è il Farhud, un pogrom che costò la vita a 180 ebrei nel 1941.
Eli Amir e Sami Michael hanno scritto in ebraico le loro rievocazioni della coesistenza fra ebrei e arabi a Bagdad. Eppure, la memoria ebraica di Bagdad si manifesta anche nell’ambito della letteratura francese con l’opera dell’ebreo canadese di origine irachena Naïm Kattan, mancato recentemente (nel luglio del 2021). Nel suo libro autobiografico Adieu Babylone: Mémoires d’un Juif d’Irak, pubblicato nel 2003, poco dopo la conquista di Bagdad dagli americani, Kattan descrive la stessa atmosfera bagdadita (Babilonia essendo una metonimia per Bagdad) dove, nonostante il trauma del Farhud, i giovani ebrei intrattenevano relazioni di amicizia con i loro compagni musulmani.