di Esterina Dana
Madri che amano troppo e madri che amano troppo poco. La maternità è sempre l’ambivalente ricerca di un equilibrio tra questi due poli per definire il giusto peso dell’amore.
Quella che ci racconta Hila Blum in Come amare una figlia (best seller in Israele, vincitore del prestigioso Premio Sapir 2021) è la storia dell’amore assoluto di una madre per la propria figlia; una relazione simbiotica che, a un certo punto, si frantuma in modo insanabile. A 19 anni Leah, la figlia, se ne va dalla sua casa in Israele senza lasciare più traccia di sé, salvo rade e fredde telefonate e una breve visita alla morte del padre. A nulla valgono per Yoela, la madre, i messaggi rassicuranti che arrivano col tempo da chi l’ha incontrata in fantomatici viaggi in diversi paesi del mondo. Lei lo sa nel profondo che non c’è niente di vero, che Leah si è costruita altrove una vita da cui l’ha esclusa.
Sgomenta, avvia un’intima e spietata indagine a ritroso per comprendere che cosa è successo, che ne è stato di quel rapporto di intensa passione e complicità. La seguiamo, avanti e indietro nel tempo, alla ricerca di che cosa le è sfuggito. Sono piccoli slittamenti: bugie, manipolazioni, sotterfugi. Sezioniamo con lei frammenti di vita, confondendoci nei suoi ricordi, dubitando con lei della realtà dei fatti e della qualità di quell’amore.
Il tema della maternità si snoda con una sincerità ossessiva che ne rivela le sfaccettature: fini schegge di un dolore sopito che riemerge dagli inganni della memoria. La certezza dell’amore incondizionato di Yoela per sua figlia si incrina per l’emergere della consapevolezza: del difficile rapporto con la propria madre, dell’incapacità di dire le parole giuste, del bisogno di controllo, della proiezione sulla figlia dei propri desideri. Yoela pecca, in fondo sapendo di peccare, per eccesso: di accudimento, di abbracci, di carezze e di sguardi intrusivi che non lasciano spazio all’altro. Possessiva e ansiosa, vorrebbe proteggere e salvare sua figlia da ogni dolore, ma è incapace di sopportarne gli struggimenti; anziché accoglierli, la consola minimizzandoli o negandoli, e Leah, come fanno i figli e le figlie che spesso percepiscono le fragilità delle madri, “Non preoccuparti – dice, – va tutto bene, mamma”.
Sullo sfondo, la depressione di Yoela sempre in agguato e la figura di Meir, il padre di Leah, incapace di introdursi in questa relazione esclusiva e difendere sua figlia dalla madre che non riesce ad accettarne la ricerca di indipendenza. E allora l’unica soluzione di Leah, per non essere fagocitata da quell’amore impossibile, è scappare. È un racconto potente in cui tutto appare naturale, ma si intuisce la violenza intrinseca di questo legame esclusivo che soffoca madre e figlia di sensi di colpa e di reciproche aspettative. Strepitoso l’incipit dal forte impatto emotivo con cui Hila Blum ci cattura immergendoci di colpo in medias res. Poi, con delicatezza, ci interroga sul ruolo di genitori e figli, ci mostra il sottile confine tra complicità ed educazione e ci fa riflettere sugli infiniti modi in cui gli effetti delle nostre scelte possono deviare dalle iniziali intenzioni. Perché l’essere umano resta un enigma e, in definitiva, non sappiamo veramente dell’altro e di noi stessi.
Hila Blum, Come amare una figlia, traduzione di Alessandra Shomroni, Einaudi Stile libero, pp. 208, euro 17,00.