di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture] Per mille e settecento anni, fra la chiusura della Mishnà all’inizio del III secolo fino alla fondazione dello Stato di Israele, la cultura ebraica si è sviluppata prevalentemente nella diaspora. E benché il popolo ebraico sia stato sempre largamente sparso nel mondo, la sua cultura si sviluppò per lo più come una staffetta fra centri locali che cambiavano spesso.
Per esempio fu a lungo elaborata nella Babilonia del Talmud e dei Geonim, poi ne troviamo il centro in Renania, in Provenza, in Spagna, a Tzfat, nella Yiddishland dell’Europa orientale. Qui nacquero quasi tutti i grandi commenti e le codificazioni sistematiche, la poesia sinagogale, i sistemi filosofici e le grandi correnti mistiche. Vi furono però anche altri centri dove la vita ebraica fiorì economicamente o almeno riuscì a preservarsi a lungo, dando anche spazio a maestri e studi: in Italia a Roma, Venezia, Padova, Mantova, Ancona; altrove e in tempi più recenti a Berlino, Parigi, New York…
Un caso molto particolare e interessante è quello di Amsterdam. Qui (come contemporaneamente a Livorno) confluirono molti esuli spagnoli e portoghesi dopo un secolo dalla cacciata. L’indipendenza dell’Olanda (1581) permise un’immigrazione ebraica prima silenziosa e mascherata, poi via via più aperta e libera. E il 1600 fu sia il “secolo d’oro” dei Paesi Bassi sia quello di una comunità locale molto ricca e per la prima volta in Europa ufficialmente libera di esercitare i propri riti, pubblicare i propri libri, costruire i propri edifici, svolgere la propria attività economica senza costrizioni esterne. I conflitti interni però non mancarono, innanzitutto quello fra gli immigrati dal Portogallo, più ricchi e integrati, e gli askenaziti più poveri e osservanti. Ma anche sul piano intellettuale i personaggi più significativi di quel tempo (Manasseh ben Israel, Uriel da Costa, soprattutto Baruch Spinoza) furono in vario modo in conflitto con la comunità; Amsterdam fu del resto la principale base di diffusione dell’eresia sabbatiana in Europa occidentale.
Gli ebrei e la società artistica
Un modo interessante per ripercorrere questo momento è guardare al rapporto intenso che gli ebrei di Amsterdam ebbero con i pittori del tempo, in particolare con Rembrandt che ne ritrasse parecchi ed ebbe intensi rapporti di amicizia con loro, vivendo a lungo nel quartiere ebraico. Lo fa Steven Nadler, grande esperto del Seicento, in un libro intitolato Gli ebrei di Rembrandt, tradotto da Einaudi un paio d’anni fa. Ma il tema principale qui non è Rembrandt, la sua difficile biografia, la straordinaria complessità della sua arte, il suo pensiero sofisticato anche sul piano teologico: per questo consiglio un altro libro uscito abbastanza di recente in italiano, Gli occhi di Rembrandt di quel grande storico che è Simon Shama, autore anche dei due grandi volumi della Storia degli ebrei.
Attraverso Rembrandt, Nadler ci racconta invece le vicende sociali, economiche, intellettuali e l’immagine artistica degli ebrei di Amsterdam: una storia di libertà, di fedeltà, di autoaffermazione, che sarebbe durata ancora fra alti e bassi due secoli e mezzo, fino alla Shoah.