di Marina Gersony
«Io invio tutti gli ebrei a Villa Guglielmi per il loro bene, so quello che faccio. Il tempo vi farà capire che ho ragione di fare così. Io non verrò mai a trovarvi, ma veglierò su di voi tutti».
Quella che state per leggere è la storia poco nota di Armando Rocchi, un fascista di provata fede che salvò una trentina di ebrei durante le persecuzioni razziali in Italia.
La saggistica degli ultimi anni ci ha consegnato diverse storie e testimonianze perlopiù inesplorate e controverse di fascisti che ebbero un rapporto conflittuale, complesso o ambiguo nei confronti delle leggi razziali. Ma anche di fascisti che in alcuni frangenti ebbero il coraggio di opporsi alle disumane leggi in vigore con azioni lodevoli pur non essendo esenti da responsabilità anche gravi. Perché la Storia non è mai semplice, coerente e lineare. Una fra tutte è la vicenda de Il prefetto Rocchi e il salvataggio degli ebrei – Perugia Isola Maggiore sul Trasimeno 1943-1944, raccontata dal saggista storico Stefano Fabei in un volume fresco di stampa con la prefazione di Giuseppe Severini e l’introduzione di Franco Cardini (Mursia, pagg. 150, Euro 15,00).
Noto per esser stato un fascista estremamente duro nei confronti dei partigiani combattenti, nonché dei renitenti alla leva, Armando Rocchi fu tuttavia anche un uomo di larghe vedute che vide in modo chiaro quanto di sconvolgente e disumano stava accadendo a degli esseri umani che avevano il solo torto di essere ebrei. Nel suo ruolo di Prefetto di Perugia, da un lato tenne l’ordine pubblico per la Repubblica Sociale Italiana nella cittadina umbra, dall’altro salvò una trentina di ebrei impedendo loro di fatto di essere rastrellati e quindi deportati nei campi di sterminio.
La prova del suo comportamento, secondo una ricostruzione puntuale e documentata dell’autore, è data da alcune testimonianze a suo favore durante il processo che, dopo la Liberazione, lo vide condannato per crimini di guerra. In seguito nessuno tenne conto della sua condotta esemplare nei confronti degli ebrei e la vicenda cadde nel dimenticatoio.
Qui l’intervista di Radio Radicale all’autore
Chi erano i trenta ebrei salvati dal Prefetto fascista dalla deportazione pretesa dai tedeschi? Si trattava di ebrei italiani e stranieri. D’accordo con il questore Baldassarre Scaminaci, tra il 1943 e il 1944, Rocchi decise di internarli prima a Villa Ajò e all’Istituto magistrale, quindi al Castello Guglielmi dell’Isola Maggiore sul lago Trasimeno, affidandoli al controllo del seniore della Milizia Luigi Lana e dei giovani ausiliari ai suoi ordini. In questo modo Armando Rocchi creò i presupposti per la loro liberazione in barba alle leggi vigenti. La notte del 12 giugno tre o quattro ebrei fuggirono con alcune guardie che poi si scopri facessero parte dei partigiani. Altri ventidue raggiunsero Sant’Arcangelo, dove erano appena arrivati gli inglesi, nelle notti del 19 e del 20 giugno 1944, grazie a don Ottavio Posta. Il parroco dell’isola, riconosciuto nel 2011 Giusto tra le Nazioni, con il poliziotto Giuseppe Baratta e con l’assenso del capo delle guardie, ne organizzò il traghettamento affidato a quindici pescatori.
Quella di Rocchi è una vicenda singolare e fuori dagli schemi che apre un dibattito importante (e attuale) al di là di pregiudizi e polemiche; la sua è una vicenda che fa riflettere su come un singolo al potere e appartenente al Sistema, possa di fatto decidere consapevolmente di opporsi e aggirare leggi ingiuste e scellerate a fin di Bene incidendo in modo positivo sulla realtà. Se da un lato la maggior parte dei fascisti obbedivano e partecipavano alla «caccia all’ebreo» denunciandolo alle autorità, dall’altro non pochi fascisti consideravano l’antisemitismo un’aberrazione e la deportazione nei lager un crimine perverso e inaccettabile. Qualcuno tra loro, come il Prefetto Rocchi, trovò il coraggio di opporsi e di agire.
Osserva Cardini nell’introduzione: «Stefano Fabei racconta con la consueta accurata attenzione alle fonti: un pubblico funzionario, un soldato, un uomo consapevolmente schierato sul piano politico e non esente da responsabilità anche gravi, che tuttavia ha saputo dimostrare almeno in un episodio della sua esistenza che cosa sia, non già la «banalità del male» e nemmeno la «banalità del bene» (il bene non è mai banale), bensì la possibilità di un coraggio più ammirevole perché, in certe situazioni, esso è un dovere dell’uomo probo: costi quel che costi, e sovente il costo in questo genere di cose è salato».
In breve, non conta l’appartenenza politica, le credenze o la fede religiosa. Ciò che conta, al di là di ogni retorica, è l’azione compiuta con il cuore, con umanità, onestà, integrità e coerenza. Perché le persone di valore vanno oltre qualunque steccato.
Per i lettori interessati alle storie poco conosciute di fascisti che salvavano gli ebrei, segnaliamo un interessante articolo apparso qualche anno fa sulla Stampa.