di Fiona Diwan
Tutte le sue storie si svolgono a Bitzaron, il quartiere sud di Tel Aviv dove è cresciuta e dove, all’indomani della Shoah, si ritrovano tutti i sopravvissuti. Si parla yiddish, si mangia cholent e si cerca di rimuovere l’insostenibile macigno del passato. Inutilmente. Scacciati dalla porta, i mostri rientrano dalla finestra. E assumono le più incredibili sembianze. Come ad esempio quelle di un’impossibile storia d’amore a tre, tra i tre amici-figli di sopravvissuti. Per decenni, la società israeliana si è proiettata verso un virile ed eroico presente, rifiutando la Shoah e chiedendo di cancellare la tormentata identità diasporica. Oggi, i romanzi di Lizzie Doron si prendono la rivincita, raccontando proprio l’epopea dei figli della Shoah, la seconda generazione, con le sue eccentricità, i suoi sogni, le verità negate eredità dolente dei genitori. Storie struggenti e ironiche, destini che prendono strane pieghe. E’ il caso di quello di Amalia, protagonista del suo ultimo romanzo che, da un aeroporto all’altro, trasporta pezzi di lapidi trovate nei luoghi degli shtetl polacchi: vuole ricomporle e riportarle in Europa, tornare lì, per non darla vinta a Hitler e per non dire che laggiù non ci sono più ebrei. Anche nella vita reale, Lizzie Doron, come la sua eroina, si divide tra la casa di Tel Aviv e quella di Berlino. Ha scelto di tornare in Europa, di riprendersi l’identità diasporica, in una forma di rivincita ma anche di tikkun, di riparazione. «Tutti i personaggi dei miei libri sono veri, esistono nella realtà. Amalia, ad esempio è una mia amica d’infanzia», dice durante un incontro a Milano, al Teatro Franco Parenti. «Sono cresciuta con mia madre. Non avevamo nessuno. A Pesach lei apparecchiava per 11 persone, metteva piatti, bicchieri, sedie.Ma c’eravamo solo noi due. Gli altri, erano i nostri morti ad Auschwitz».
Lizzie Doron, L’inizio di qualcosa di bello, traduzione Anna Linda Callow, Giuntina, pp. 244, 15 euro