di Ester Moscati
Tzaar baalei Chayym, la sofferenza degli animali: evitarla è un comandamento della Torà. ”Me lo hanno insegnato alla scuola ebraica: se proprio vogliamo mangiare gli animali, dobbiamo farlo con umiltà e rispetto, non infliggendo sofferenze né durante l’allevamento né con la macellazione. È una concezione che mi rende orgoglioso di essere ebreo”. Parola di Jonathan Safran Foer, giovane scrittore americano, pieno di talento e capacità di approfondire e comunicare sentimenti complessi e riflessioni appassionate.
Lo ha fatto, sul tema della memoria con il suo primo, straordinario libro “Ogni cosa è illuminata”, e sull’11 settembre con “Molto forte, incredibilmente vicino”. E lo fa oggi con il libro-inchiesta “Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?” (Guanda): 360 pagine, di cui 60 di note documentarie necessarie a provare, punto per punto, le cose che scrive, letteralmente difficili da digerire. Sì, perché prendere in mano questo libro-denuncia sulle sofferenze che l’uomo contemporaneo infligge agli animali significa accettare di mettere in discussione il proprio stile di vita. Difficile restare indifferenti ai risultati di tre anni di inchieste, ricerche sul campo, riflessioni.
Ma che cosa c’entra il romanziere Safran Foer con un’inchiesta degna del miglior giornalista investigativo? Anche qui c’entra l’ebraismo: la memoria familiare, la nascita del primo figlio, il senso di responsabilità. ”Mia nonna mi raccontava della guerra: ’fu l’inferno in terra e io non avevo niente. Avevo lasciato la mia famiglia, sai. Scappavo sempre, giorno e notte, perché i tedeschi mi stavano alle calcagna. Se ti fermavi eri morto. Il cibo non bastava mai. Mi ammalavo sempre di più a forza di non mangiare. Non solo ero pelle e ossa. Avevo piaghe in tutto il corpo. Facevo fatica a muovermi. Non era un granché mangiare dai bidoni della spazzatura. Mangiavo quello che gli altri non erano disposti a mangiare. Se ti adattavi, potevi sopravvivere. (…) Un contadino, un russo, Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me’. ’Ti salvò la vita’. ’Non lo mangiai’. ’Non lo mangiasti?’ ‘Era maiale. Non ero disposta a mangiare maiale’.
’Perché?’. ‘Che vuol dire perché?’.
’Come? Perché non era kosher?’.
‘Certo’. ’Ma neppure per salvarti la vita?’. ’Se niente importa, non c’è niente da salvare’.” Ecco la parola chiave: “importa”. Che significa responsabilità delle proprie scelte di vita, anche alimentari, soprattutto oggi che con l’allevamento intensivo quello che mangiamo condiziona una moltitudine di aspetti diversi della vita umana sulla terra.
In una bistecca nel nostro piatto, che cosa c’è? Carne di pollo, manzo, tacchino? Molto di più: c’è malattia, contaminazione dell’ambiente, deforestazione, inquinamento, effetto serra e il 100% di sofferenza. La carne degli allevamenti intensivi oggi è tutto questo: gli animali subiscono violenza e maltrattamenti non solo al momento della macellazione, ma per tutto l’arco della loro vita: a causa del sovraffollamento vengono somministrati antibiotici in dosi massicce. I germi patogeni finiscono per sviluppare resistenza e questi stessi antibiotici perdono dunque efficacia nel curare gli uomini. Sars, influenza aviaria, influenza suina, sono tutte malattie cresciute negli stessi allevamenti del nostro cibo. Per aumentare la massa muscolare viene modificato il codice genetico degli animali, ormai incapaci di riprodursi normalmente; deformi e con il ciclo biologico completamente annullato dai ritmi sonno-veglia imposti dall’illuminazione artificiale degli impianti, non sono lasciati liberi di seguire alcun comportamento tipico della loro specie. Vengono castrati, mutilati senza anestesia, costretti ad uno spazio vitale minimo, che produce negli animali frustrazione, dolore, follia. Parliamo di bestie con l’intelligenza pari a quella di un cane (come i maiali) e con comportamenti che in natura sono sociali e affettivi complessi. ”Nessuno che lavori negli allevamenti intensivi sostiene che gli animali non soffrano terribilmente in tutto il corso della loro vita”, racconta Safran Foer.
E se le bestie fossimo noi?
Tutto questo per produrre carne che abbia sul mercato un prezzo basso, ma il consumatore pagherà la differenza, non scritta sullo scontrino, per tutto il corso della vita, vivendo in un ambiente devastato: l’allevamento degli animali contribuisce al riscaldamento globale per un 40% in più rispetto a tutto il settore mondiale dei trasporti. È la causa numero uno dei cambiamenti climatici, dice ancora l’autore. Chi ci guadagna, nell’immediato, è solo l’industria zootecnica, concentrata in America in poche mani private. Il prezzo basso moltiplica esponenzialmente i consumi, facendo dilagare malattie legate all’eccesso di grassi e proteine animali: colesterolo, problemi cardiovascolari, danni renali. Tanto più che il cibo industriale è tutt’altro che sano. Ci indigniamo leggendo di atleti dopati, ma non ci preoccupiamo degli additivi che diamo da mangiare ai nostri figli ogni giorno.
Dove conta solo il profitto, la parola ”efficienza” è sinonimo della velocità di una catena di s-montaggio, anche se i pezzi da tagliare sono animali, spesso ancora vivi e coscienti anche nelle fasi avanzate della lavorazione.
Ma la macellazione kasher, non dovrebbe preservare gli animali da questo orrore? Safran Foer racconta l’indignazione della comunità ebraica dopo la scoperta di sofferenze agli animali causate da un impianto difettoso di macellazione. I responsabili furono accusati di Chillul HaShem, profanazione del Nome, per non aver valutato le implicazioni morali del rituale. Ma, si chiede ancora Jonathan, come può l’intero processo di allevamento industriale essere compatibile con la Kasherut? Il problema infatti non è solo il momento della macellazione ma è il cambiamento imposto alla fisiologia degli animali, la loro vita devastata che è anche la nostra vita devastata: non mangiamo più “animali” ma “prodotti industriali”, che – però – soffrono. Possiamo fingere di dimenticarlo, o scegliere di ricordarlo. Come ha fatto un “eroe buono” di cui si racconta nel libro: Bill Niman, ebreo, figlio di immigrati russi, che presenta la sua filosofia dell’allevamento non intensivo, fatto ancora oggi sui pascoli.
C’è infatti un modo etico di allevare gli animali, rispettando il patto implicito nel rapporto uomo – bestia: buona vita, morte pietosa. Bill ha fondato la Niman Ranch, una specie di franchising che unisce piccoli allevatori tradizionali, per tornare ai metodi naturali. Tanto che è aiutato dalla moglie, vegetariana convinta.
Perché se si potesse mangiare carne di sicura provenienza naturale, di animali che non hanno sofferto ma vissuto all’aria aperta, goduto del sole e stretto legami affettivi e sociali con i loro simili, grazie alla cura dell’uomo, non sarebbe poi sbagliato prenderne in cambio la vita, in modo rapido e indolore, come a rispettare un patto implicito di mutuo scambio. Ma la realtà oggi è ben diversa e le piccole iniziative, pur preziose, non sono in grado di sfamare il pianeta.
La scelta di Jonathan è oggi vegetariana. A meno di non decidere di chiudere per sempre con l’allevamento industriale e far sì che tutto torni alla tradizione. Secondo Safran Foer, il potere di scelta dei consumatori può modificare la realtà. L’uomo come ”onnivoro responsabile” è un obiettivo e allo stesso tempo il detentore del potere di cambiare lo stato delle cose. L’indifferenza è invece un crimine di complicità, tanto verso gli uomini quanto verso gli animali.
Ancora una volta, la scelta etica, la consapevolezza e la responsabilità che l’ebraismo pretende è la strada maestra: ”Che mondo creeremmo – si chiede Jonathan – se tre volte al giorno la nostra compassione e la nostra razionalità intervenissero mentre ci sediamo a tavola, se avessimo l’immaginazione morale e la volontà pratica di cambiare il nostro atto di consumo più essenziale?”.
Anche se decidessimo che non ci importa della sofferenza di cui ci rendiamo complici, l’impatto dell’allevamento intensivo sull’ambiente in cui viviamo e direttamente sulla salute del nostro corpo dovrebbe indurci a valutare molto seriamente che cosa mangiare. È sempre possibile svegliare uno che dorme, ma non c’è rumore che possa svegliare chi finge di dormire.
Ester Moscati