di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita] Moltissimi israeliani sono figli, nipoti o bisnipoti di ebrei venuti dalla Polonia in ondate successive di immigrazione: nel 1924; alla vigilia della Shoah; immediatamente dopo la Shoah; nel 1957 e nel 1968 quando la Polonia socialista espulse o spinse alla partenza gli ultimi ebrei sopravvissuti alla persecuzione nazista che costò la vita a tre milioni ebrei polacchi.
A prescindere da questo legame storico, il passato polacco è stato generalmente occultato dalla memoria di chiunque avesse un ricordo di quel paese. Questo rende particolarmente traumatico il viaggio in Polonia che i giovani israeliani effettuano durante l’ultimo anno del liceo per visitare i luoghi dello sterminio. Sebbene parecchi di loro abbiano radici in questo paese, lo percepiscono spesso come una terra minacciante; un cimitero di ebrei morti senza sepoltura; un luogo ostile dove l’antisemitismo tradizionale di una parte della popolazione polacca si sente talvolta ancora oggi, anche in assenza di ebrei.
Il romanzo Bandit (così nell’originale ebraico) di Itamar Orlev, pubblicato nel 2015 e oggi nel 2022 con il titolo Canaglia nell’eccellente traduzione italiana di Silvia Pin, mette in scena lo shock culturale provocato dall’incontro con la realtà polacca percepita con gli occhi di un israeliano nato a Wroclaw (Breslavia) ma immigrato da quella città in Israele nel 1968 con gli ultimi ebrei rimasti in Polonia.
Non è un romanzo autobiografico sebbene Itamar Orlev faccia parte degli israeliani con un passato familiare polacco, avendo suo padre Uri Orlev (Jerzy Orlowski dal suo nome polacco) certi tratti in comune con Tadeusz Zagurski, il narratore di Canaglia: come lui ha tradotto libri dal polacco all’ebraico e come lui appartiene a due mondi, il passato polacco e il presente israeliano.
Tuttavia, Itamar Orlev ha voluto rendere ancora più forte il divario fra due mondi usando due strattagemmi narrativi: la Polonia rivisitata dall’israeliano di origine polacca non è l’odierna Polonia, membro dell’Unione europea e della NATO, bensì la Polonia del 1988, alla fine della dittatura di Jaruzelski. Per di più, Tadeusz (Tadek) è il prodotto di un matrimonio misto fra un’ebrea polacca e un contadino cristiano della regione di Chelm, vicino a Lublin e al sinistro campo di Majdanek. Ed è proprio per rivedere suo padre – che sta marcendo in una casa di riposo di Varsavia – che Tadek intraprende un viaggio iniziatico sulle orme del suo passato familiare.
L’incontro con il padre Stefan alcolizzato (il bandit) è complicato perché aveva maltrattato la madre e Tadek stesso insieme alle sue due sorelle e a suo fratello. Questa violenza domestica costrinse la madre a prendere i suoi figli e a emigrare in Israele, senza il marito, alla prima occasione: in questo caso le misure antisemitiche dell’anno 1968 che incoraggiarono gli ultimi ebrei rimasti in Polonia a lasciare il loro paese.
Il vecchio padre alcolizzato non smette di ruminare il passato, soprattutto quello della guerra. Fra due bicchierini di vodka racconta come abbia incontrato la madre di Tadek quando essa, provvista di una finta carta d’identità, viaggiava fra il ghetto di Varsavia e la regione di Lublin per rifornire di cibo gli ebrei reclusi e affamati. È in questa occasione che Stefan Zagurski conobbe quella che doveva diventare la madre dei suoi quattro figli, fra i quali Tadek.
Racconta poi dei ricordi sempre più raccapriccianti sulla sua attività nell’Armia Krajowa, il principale movimento di resistenza polacco contro l’occupante tedesco, sulle torture subite dalla Gestapo e sull’incarceramento nel campo di Majdanek in qualità di detenuto politico.
Si scopre che la lotta eroica dell’Armia Krajowa contro i nazisti non escludeva sentimenti antisemiti nei confronti delle vittime ebree dell’oppressione hitleriana. Le confessioni del vecchio padre rivelano non solo gli orrori della guerra ma anche una differenza profonda fra la memoria storica polacca non-ebraica e la prospettiva ebraica polacca.
Stefan stesso riconosce che le atrocità inflitte agli ebrei in Polonia superano le vicende vissute dai polacchi cristiani. Attraverso le confidenze di quell’uomo semplice e sincero si capisce anche il ruolo dei delatori polacchi non solo contro gli ebrei ma anche contro i partigiani polacchi nonché il trattamento indegno di cui i coraggiosi combattenti dell’Armia Krajowa furono vittime da parte del regime socialista imposto da Mosca.
La forza di questo libro viene dalla sua capacità di articolare la microstoria (i fatti raccontati si ispirano a eventi reali) e la macrostoria: la tragedia degli ebrei polacchi che si trovavano proprio nell’epicentro del meccanismo dello sterminio antisemita; le ambiguità della storia polacca, altrettanto tragica bensì diversamente; e in modo più sottile e non esplicitamente detto, la strana relazione di amore/odio che unisce i polacchi cristiani e gli ebrei polacchi.